Davide Nota è nato nel 1981 a Cassano d’Adda, in provincia di Milano. Residente dalla prima infanzia ad Ascoli Piceno ha studiato a Perugia dove nel 2005 ha fondato la rivista di poesia e realtà “La Gru” (2005-2012) e nel 2007 si è laureato con una tesi sulla “Nuova poesia in Italia (1975-2005). Dal 2008 vive tra le Marche e Roma dove ha ideato la campagna dei poeti in rivolta “Calpestare l’oblio” (2009-2010; in collaborazione con L’Unità e Left), ha scritto una storia per l’infanzia dal titolo Giovanna oltre lo schermo (Ladolfi, 2011) illustrata da Valeria Colonnella e cinque racconti pubblicati in e-book con il titolo Gli orfani sul portale di Nazione indiana. Ha pubblicato i libri di poesia Battesimo (2005), Il non potere (2007) e La rimozione (2011). Nel 2011 ha fondato la casa editrice Sigismundus, dove, tra gli altri titoli in catalogo, ha riunito le sue tre pubblicazioni poetiche precedenti nel canzoniere Il non potere (2002-2013).
Il non potere è il risultato, rivisto e corretto, di undici anni di lavoro poetico, da cui Davide ci regala questi estratti.
Amilcare Caselli
Gli orfani
Occorre ritrovarsi. Su questo bagnasciuga
reticolato. Dentro queste macchie
di acquerelli e pixel. Nel cielo
sfibrato. Occorre comunque ritrovarsi.
L’immagine è sfocata. Un’ombra
accartocciata ai piedi del mare.
(Non lo so neanch’io, no: non lo so…).
Sulla battigia desolata
gli uomini in fuga cercano un rifugio
e i deboli un lungo sonno.
Così come orfani del mondo
incatenati nella febbre a vita
del giorno: è così, sì, va bene…
Ma sebbene le tubature siano molte
e la sorgente unica
l’origine, Giulia, è dentro l’assedio.
Ogni altro è lo stesso io
[Estratti da “Per una poesia del margine”, in “Il non potere (2002-2013)”, Sigismundus, 2014]
Ciò che resta della muta è la pellaccia tra i rovi. La poesia come scoria espulsa dalla polis mutante. Sotto il sole feroce del tardo capitalismo globale tradizione e pietà attendono entrambe di decomporsi. Consapevole rifiuto urbano quello che oggi mi si spalanca, come poeta e come giovane uomo, è la possibilità di riconoscermi in un’alterità. Esiliata e oltre le mura nasce un’esistenza nuova. Non sono un poeta civile perché non ho avuto nessuna civiltà di riferimento. Non sono un poeta realista perché l’unica realtà che conosco è la solitudine. Sono il tentativo mancato di resistere al disumano. Subire l’epoca senza compiacersene vuol dire, anche, permanere nella musica, in un’armonia pur degenere che non ceda al cinismo della prosa (se non divorandola come inserto). La tradizione classica è indispensabile: tradirla senza sanguinare è solo un’altra forma di obbedienza al dogma della dismissione. L’Italia è un laboratorio straordinariamente fertile per il nuovo poema. Qui il presente non ha mai smesso di spiegarsi attraverso i suoi più o meno disarticolati sistemi di segni, gesti e nuovi gerghi a eludere gli standard ufficiali della comunicazione di massa. Un crocevia di esperienze epocali visualizzabili in un solo tragitto cittadino: tra i testimoni del collasso, i reduci dallolocausto africano e gli eterni adolescenti nel sole. In questo ordito fonico è avvenuto il Battesimo, sotto i traumi e i miracoli della comunicazione, di una generazione devastata, esterna a ogni cosa. Corpi senza posto lungo le dissestate strade della provincia italiana, dalle scuole private di mandato allo sbando tecno-barocco delle notti irreali. Dalla ricerca di un lavoro, poi, alle fauci impassibili della grande crisi. Gli anni Duemila erano lì, pronti da tempo a raccogliere i frutti acidi di questa semina geneti ’ camente modificata. Essa ad ogni modo reclama il proprio diritto di esistere; se non nella vita frustrata dall’epoca perlomeno nel canto, da borderline.
[…]
Prendere a modello il fiore di Rilke, dai Sonetti a Orfeo: spalancare i petali percettivi dal sole della primavera allo sgomento orrore delle notti. Non chiudersi a niente. Non a tutti è dato passeggiare con sobrietà: su una crosta che si sfalda serve un passo più lungo della gamba. Nell’opera poetica una possibilità può essere data dalla forma poematica aberrante, contenente quanta più esistenza possibile. Da Orfeo a Marx, dalla violacciocca al cadavere di Carlo Giuliani, dalla croce alle sorelle Lecciso. Dal tono comico al sublime, dal grottesco all’elegiaco, dal tragico al crepuscolare. Dalla riflessione alla visione, dall’enunciazione al sentimento, dal sospetto al sogno e ancora al gioco. Non vergognarsi mai di una rima baciata né di un atto satirico di sabotaggio. Non di un’invettiva politica, non di una preghiera in lacrime ai piedi dell’amata o del dio assente. Confondere gli stili, bandire ogni tabù. Testo poetico come teatro di voci: che ogni verso neghi il precedente. Cadere è inevitabile («Forse perché tu vivi adagio, costeggiando / non puoi capire, è inutile / l’urgenza di sbagliare, / quando di notte scivola la pietra / e la scelta è quale spalla / fratturare, nient’altro.»). Ma ogni errore è commovente. Servizio di umiltà che porta altrove. La piena fluviale come laboratorio di disindividuazione e naufragio nel canto comune del Non-potere. Non soggetto né oggetto, ma getto. Ecco i miei alter ego spettrali, le scorie dell’umano che io stesso sono. Non solo “tema” del margine storico (l’attualità della decomposizione neo-liberista) ma “deriva” universale: il male come vicenda non specifica. Ogni storia è un oltraggio all’individuo. Ogni individuo è un male storico. Da qui l’assenza di uno studio fisico specifico dei personaggi: non storie ma canto, informe ordito di preghiere mutanti. L’io poetico comprende corpi e esperienze, perché è un unicum molteplice. Ecco lo stile dell’ambiguità e del limine: la nostra Storia, di grumi in conflitto e incongruenze residuali in cui si manifesta il sacro nell’inutile del margine. Il non potere è questo reale flusso di voci senza corpo e coro: vite irreali, sospensioni nel dramma trinitario (soggettivo, storico e cosmogonico) in cui ogni altro è lo stesso io.
Davide Nota