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Davide Nota è nato nel 1981 a Cassano d’Adda, in provincia di Milano. Residente dalla prima infanzia ad Ascoli Piceno ha studiato a Perugia dove nel 2005 ha fondato la rivista di poesia e realtà “La Gru” (2005-2012) e nel 2007 si è laureato con una tesi sulla “Nuova poesia in Italia (1975-2005). Dal 2008 vive tra le Marche e Roma dove ha ideato la campagna dei poeti in rivolta “Calpestare l’oblio” (2009-2010; in collaborazione con L’Unità e Left), ha scritto una storia per l’infanzia dal titolo Giovanna oltre lo schermo (Ladolfi, 2011) illustrata da Valeria Colonnella e cinque racconti pubblicati in e-book con il titolo Gli orfani sul portale di Nazione indiana. Ha pubblicato i libri di poesia Battesimo (2005), Il non potere (2007) e La rimozione (2011). Nel 2011 ha fondato la casa editrice Sigismundus, dove, tra gli altri titoli in catalogo, ha riunito le sue tre pubblicazioni poetiche precedenti nel canzoniere Il non potere (2002-2013).
Il non potere è il risultato, rivisto e corretto, di undici anni di lavoro poetico, da cui Davide ci regala questi estratti.

Amilcare Caselli

Gli orfani

Occorre ritrovarsi. Su questo bagnasciuga
reticolato. Dentro queste macchie
di acquerelli e pixel. Nel cielo
sfibrato. Occorre comunque ritrovarsi.
L’immagine è sfocata. Un’ombra
accartocciata ai piedi del mare.
(Non lo so neanch’io, no: non lo so…).
Sulla battigia desolata
gli uomini in fuga cercano un rifugio
e i deboli un lungo sonno.
Così come orfani del mondo
incatenati nella febbre a vita
del giorno: è così, sì, va bene…
Ma sebbene le tubature siano molte
e la sorgente unica
l’origine, Giulia, è dentro l’assedio.

Ogni altro è lo stesso io
[Estratti da “Per una poesia del margine”, in “Il non potere (2002-2013)”, Sigismundus, 2014]

Ciò che resta della muta è la pellaccia tra i rovi. La poesia come scoria espulsa dalla polis mutante. Sotto il sole feroce del tardo capitalismo globale tradizione e pietà attendono entrambe di decomporsi. Consapevole rifiuto urbano quello che oggi mi si spalanca, come poeta e come giovane uomo, è la possibilità di riconoscermi in un’alterità. Esiliata e oltre le mura nasce un’esistenza nuova. Non sono un poeta civile perché non ho avuto nessuna civiltà di riferimento. Non sono un poeta realista perché l’unica realtà che conosco è la solitudine. Sono il tentativo mancato di resistere al disumano. Subire l’epoca senza compiacersene vuol dire, anche, permanere nella musica, in un’armonia pur degenere che non ceda al cinismo della prosa (se non divorandola come inserto). La tradizione classica è indispensabile: tradirla senza sanguinare è solo un’altra forma di obbedienza al dogma della dismissione. L’Italia è un laboratorio straordinariamente fertile per il nuovo poema. Qui il presente non ha mai smesso di spiegarsi attraverso i suoi più o meno disarticolati sistemi di segni, gesti e nuovi gerghi a eludere gli standard ufficiali della comunicazione di massa. Un crocevia di esperienze epocali visualizzabili in un solo tragitto cittadino: tra i testimoni del collasso, i reduci dallolocausto africano e gli eterni adolescenti nel sole. In questo ordito fonico è avvenuto il Battesimo, sotto i traumi e i miracoli della comunicazione, di una generazione devastata, esterna a ogni cosa. Corpi senza posto lungo le dissestate strade della provincia italiana, dalle scuole private di mandato allo sbando tecno-barocco delle notti irreali. Dalla ricerca di un lavoro, poi, alle fauci impassibili della grande crisi. Gli anni Duemila erano lì, pronti da tempo a raccogliere i frutti acidi di questa semina geneti ’ camente modificata. Essa ad ogni modo reclama il proprio diritto di esistere; se non nella vita frustrata dall’epoca perlomeno nel canto, da borderline.

[…]

Prendere a modello il fiore di Rilke, dai Sonetti a Orfeo: spalancare i petali percettivi dal sole della primavera allo sgomento orrore delle notti. Non chiudersi a niente. Non a tutti è dato passeggiare con sobrietà: su una crosta che si sfalda serve un passo più lungo della gamba. Nell’opera poetica una possibilità può essere data dalla forma poematica aberrante, contenente quanta più esistenza possibile. Da Orfeo a Marx, dalla violacciocca al cadavere di Carlo Giuliani, dalla croce alle sorelle Lecciso. Dal tono comico al sublime, dal grottesco all’elegiaco, dal tragico al crepuscolare. Dalla riflessione alla visione, dall’enunciazione al sentimento, dal sospetto al sogno e ancora al gioco. Non vergognarsi mai di una rima baciata né di un atto satirico di sabotaggio. Non di un’invettiva politica, non di una preghiera in lacrime ai piedi dell’amata o del dio assente. Confondere gli stili, bandire ogni tabù. Testo poetico come teatro di voci: che ogni verso neghi il precedente. Cadere è inevitabile («Forse perché tu vivi adagio, costeggiando / non puoi capire, è inutile / l’urgenza di sbagliare, / quando di notte scivola la pietra / e la scelta è quale spalla / fratturare, nient’altro.»). Ma ogni errore è commovente. Servizio di umiltà che porta altrove. La piena fluviale come laboratorio di disindividuazione e naufragio nel canto comune del Non-potere. Non soggetto né oggetto, ma getto. Ecco i miei alter ego spettrali, le scorie dell’umano che io stesso sono. Non solo “tema” del margine storico (l’attualità della decomposizione neo-liberista) ma “deriva” universale: il male come vicenda non specifica. Ogni storia è un oltraggio all’individuo. Ogni individuo è un male storico. Da qui l’assenza di uno studio fisico specifico dei personaggi: non storie ma canto, informe ordito di preghiere mutanti. L’io poetico comprende corpi e esperienze, perché è un unicum molteplice. Ecco lo stile dell’ambiguità e del limine: la nostra Storia, di grumi in conflitto e incongruenze residuali in cui si manifesta il sacro nell’inutile del margine. Il non potere è questo reale flusso di voci senza corpo e coro: vite irreali, sospensioni nel dramma trinitario (soggettivo, storico e cosmogonico) in cui ogni altro è lo stesso io.

Davide Nota

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Le assi inchiodate in alto a sinistra, la linea del corpo vestito di nero e le venature del legno sullo sfondo sono gli elementi verticali, attraversati trasversalmente in primo piano dal corrimano in bianco e nero che, tagliando in due il tutto, sembra essere appeso nel nulla, obliquo.
Lì sotto, parallelo ad esso, corre pure il corpo lucido ed intricato del sassofono tenore, seguendo la linea di salita della scala, come sale il lato lungo del triangolo d’ombra che dipinge di nero l’angolo in basso a destra. 
Salgono le linee, ascendono; dirigono John in alto.
Perpendicolari ad esse ma in secondo piano invece sono le linee dell’avambraccio e della coscia alzata sul gradino, così come il corpo finale del sax, in un quadro astratto di righe o direzioni e simboli dove non mancano le rette orizzontali, come il tetto sbilenco della catapecchia e la linea piccola lì dietro del sax soprano; piccolo ma così determinante ed importante per chi conosce la musica di Trane, per chi sa quanto amore e studio gli è costato, per chi sa cosa questo strumento ha significato per lui.
C’è un’altro elemento orizzontale, piccolo ma fondamentale: il gradino di legno massiccio, che sembra essere l’unica cosa solida dove mettere il piede e salire dentro un castello di carte, una favela che sembra dover crollare da un momento all’altro, al prossimo passo. In questo mondo in squadro di poveri legni inchiodati alla bell’e meglio che si aggrappano l’un l’altro nel vuoto come “clusters”, i  grappoli di note appesi e inchiodati all’armonia, all’accordo, traballanti ma geometrici e matematicamente modali.
In questo ritratto tutto sembra essere sul punto di uscir fuori proporzione; come la sua musica che, come questa immagine, non ha punctum non ha focus se non un’anima che sale e vive di linea e luce.
Dove sta andando. Perché sta salendo. Per una stupida associazione di idee mi piace pensare che questa foto sia stata scattata mentre Coltrane stava già elaborando “Ascension”.
Qui siamo nel 1960 e William Claxton, fotografo dei divi di Hollywood e del jazz storico, scatta una foto densa di simboli: Coltrane ha appena inciso Giant Steps, passi da gigante fatti sulle scale degli accordi, sui “modi” imparati già nel ’55 da Davis fino  a “Kind of Blue” di quei tempi, da cui imparerà anche l’uso dell’eroina che porterà Coltrane alla morte nel ’67 per cancro al fegato. I passi da gigante di Trane di quei fine anni ’50 sono fatti sopra i gradini delle sue benedette scale modali, sui tritoni, i triangoli armonici, come quello nero in basso a destra, i clusters appesi come le assi di legno a sinistra, fanno del jazzista una rivelazione, presagiscono la rivoluzione che John già ipotizza e verrà di lì a poco con il suo quartetto storico, fino ad A Love Supreme del 1965, fino ad “Ascension”, appunto, che segna una svolta nel Free Jazz ma sopratutto nella vita spirituale di Coltrane, portandolo alle estreme conseguenze di confondere la musica con la preghiera, la ricerca di muovi modi con nuovi piani dello spirito, su, sempre più su fino al suo ultimo “Meditations”.

Come nella foto di Claxton, la sua vita è stata una continua ascesa verso piani sempre più rarefatti, sebbene sempre più coscienti, pagati con il prezzo alto della totale dedizione dello spirito, oltre che alla tecnica e allo studio perpetuo, come i mantra di un monaco o come una condanna.
L’immagine ferma la consapevolezza di un essere inadeguato. Fuori luogo comunque e spesso criticato e quasi emarginato in vita per le sue scelte estreme. Solo postmortem il messaggio cambierà nelle generazioni il modo di “pensare il suonare”, creando nuove scuole. Solo dopo il sacrificio necessario. Inarrestabile ascesa di una vocazione inevitabile.
Ma qui non voglio parlare della sua musica. Voglio parlare di questa stramaledetta fotografia, mi debbo sfogare perché ogni volta che vedo una sua immagine, ancor più che ascoltando un suo brano, io vedo il dramma afono,la tragedia muta. 
Non esiste una foto di Trane che non esprima una terribile calma determinata, come in attesa di una catastrofe annunciata ma inevitabile. Serio e concentrato come ad ascoltare un giudizio universale incontrovertibile, la sua faccia si presta a giochi di luce ed ombra paurosi, primitivi, ancestrali come qui.
La mano enorme è forse l’unica cosa quasi umana e non trascendentale o demoniaca. Grande, poetica ed ossuta, scolpita e scontata d’ebano d’Africa; ma il volto è quello di un predestinato, di un maledetto dalla sorte a salire le scale della coscienza come il palco di una gogna di uno schiavo della cattolica, primitiva negritudine.
Sul volto si svolge un dramma silenzioso e terrifico perché calmo e rassegnatamente consapevole di quello che sarà. Il suo volto è ricettacolo di ombra e luce che illuminato da un solo faro se ne sta su un palcoscenico applaudito allo stesso modo che arso sul rogo d’inquisizione.
Stesse luci, stesse ombre, stessa icona; ecco. John Coltrane è per me Giordano Bruno.

Amilcare Caselli

pugile
Quando mi è arrivato questo file ho avuto mille perplessità. Avevo davanti uno spaccone, arrogante con gli uomini e con le donne, violento con entrambi e pieno di luoghi comuni, anche quelli del carcere. Ero infastidito dalla sicumera dello scritto che addirittura pretendeva d’essere “libro” (ad un certo punto scrive “una cosa che non dirò nemmeno in questo libro”, che ho tradotto in “racconto”). Ho provato a riscrivere tutto, a mantenere la storia, cambiando linguaggio e impostazione ma non funzionava.

Poi ho capito che la forza di questo racconto è proprio nella sua genuinità. Non ho fatto altro che correggere gli inevitabili errori, refusi, periodi, reiterazioni e qualche altra cosa lasciando lo spartito quasi così come il narratore ha voluto, addirittura con la lunga introduzione e la poesia finale “Amo le donne” di H. Hesse. 
Tra botte e buoni sentimenti, bravate, donne deificate o usate come kleenex, il carcere e i figli nati ai permessi di un giorno, hai davanti il ritratto neorealista di un uomo che si racconta, scrive con l’efficacia delle parole semplici e dure le sue convinzioni che diventano domande e debolezze guardandosi nello specchio.
Hai davanti un “dettato dal cuore” come dice nella chiosa.

Amilcare Caselli

INTRODUZIONE

Venendo dalla strada capisci cose che a volte non vuoi o non puoi capire nella vita normale.
Capisci cosa è veramente la sofferenza, il rispetto. Stando in quattro mura hai tempo per pensare cosa vuoi veramente dalla vita, fai tanti progetti, ti fai tante promesse ma alla fine mandi a fanculo tutto perché quello che vuoi in quelle quattro mura non lo puoi ottenere, puoi solo aspettare e sperare che un giorno si apra quel cancello e quella è la libertà, non reale all’inizio perché sei talmente euforico che non riesci a capire cosa è giusto e cosa è sbagliato, così ci rientri in quelle quattro mura, di nuovo con i tuoi pensieri e le tue paure.
Sai che lì dentro ci sono persone che ti vogliono bene ed hanno il tuo stesso vissuto, prendi a pugni chi non ti rispetta ma alla fine sei dentro senza tv, senza un bagno, da solo in quella cella fredda e buia. Questo è l’isolamento, pensavo fosse diverso. Lì ci ho conosciuto le mie paure, la paura di non farcela, quella di morire ma quando rivedi la luce del sole capisci che non è ancora tutto perso e che forse si può ricominciare a vivere a fare all’amore ad avere un altra opportunità. Ma quando ti accorgi che tutto questo è reale da una parte ed irreale dall’altra e ti rendi conto che i tuoi sogni non vanno sempre come vorresti, allora ti chiedi se sei veramente destinato a fare questa vita, ti fermi, ti guardi allo specchio e ti chiedi “ma la mia vita è veramente importante per me?”.
Arriva una donna, ti guarda, ci si innamora, tante promesse tanti progetti e un bel giorno ritorni in carcere. Beh hai perso ogni speranza. Pensavo di poter fare una vita normale, mi dicevo, l’ho persa.
Un bel giorno mi chiamano per il colloquio e lei così bella, il suo profumo inebriante, iniziamo a parlare, ci diciamo che ci ameremo per tutta la vita, sì è lei la donna della mia vita.
Esco, torno a casa e lei è con me, decidiamo di avere un figlio, felici e contenti, orgogliosi di noi. Lei incinta di cinque mesi, era una femmina, io dopo otto mesi di indagine per una rissa, ritorno in cella più arrabbiato di prima. Credevo di poter uccidere qualcuno in quel momento, picchio una, due, tre persone. Mi mandano lontano dove lei non poteva arrivare.
Quando arrivò la scarcerazione credevo di essere fortunato perché ero a casa con lei e con nostra figlia, ma dopo solo dieci giorni dovetti tornare dentro, una persecuzione.
Più arrabbiato di prima, ero una bestia e sentivo un fuoco dentro, sentivo che stavo per esplodere, ancora una volta picchio una, due, tre persone per sfogare la rabbia, mi allontanano di nuovo, ritorno e sfogo di nuovo la rabbia.
A volte sento ancora dentro di me quel mostro che sta per uscire e mi fa tanta paura, forse perché non ho più il mio amore, perché non ho più i suoi consigli sapendo che dentro di lei c’è una vita che è nostra. Mi ha lasciato, ricominciano le paure ma allo stesso tempo mi convinco di farcela e mi chiedo, ma è questo il mio destino? Dopo sei anni di carcere, quei muri sono dentro di me e non riesco a buttarli fuori.
Perché quando stai tanto tempo in un posto diventi quel posto.
Citando un film, nessuno può colpire duro come fa la vita, perciò andando avanti non e’ importante  quante volte cadi a terra ma conta la forza  che hai per rialzarti, solo così sei un vincente.

-A PUGNI CHIUSI-

Le sbarre fredde, umide, dal sapore metallico.
Mi ricordo la prima volta in carcere; ti portano subito in matricola, ti prendono le impronte digitali, ti fanno le foto, ti spogliano nudo, ti fanno fare le flessioni e lì ti rendi conto di quanto potere hanno su di te.
La mia prima carcerazione in verità non me la ricordo molto bene, ero in una cella, prendevo farmaci, metadone, non ero lucido per capire cosa era il carcere. Ho detto che le sbarre della prigione sono fredde ed è vero, mi tagliarono il cappuccio dell’accappatoio, mi tolsero i lacci delle scarpe e non potevo portare la cintura dei pantaloni e non capivo perché.
Più tempo stavo lì e più capivo come ci si doveva comportare. Ci sono molte regole nel carcere, regole nostre.
Ve ne dico un paio, donne e bambini non si toccano e gli infami non si accettano, quando vai ai colloqui non si guardano le donne degli altri, devi essere educato con tutti ma quando qualcuno ha un problema e ti chiamano, visto che siamo tutti sulla stessa barca non puoi dirgli di no e dal momento che non lo fai quando servirà a te rimarrai solo.
Lì dentro devi tirar fuori le palle o verrai sottomesso, non devi mai abbassare la guardia, come nella boxe, perché ci sono i tunisini che dalla bocca  tirano fuori le lamette e ti sfregiano per farti ricordare di loro per sempre.
Una volta feci a pugni con un tunisino, lui ne prese tante, ma da quel momento avevo un problema; decidemmo di picchiare tutti i tunisini che c’erano nella sezione, poi gli animi si sono calmati perché sapevamo che lì dentro dovevamo starci tutti insieme. Riuscii ad accaparrarmi l’amicizia di un secondino che mi portava il fumo e feci fumare tutti per passare una giornata diversa. Avevo iniziato ad avere rispetto, là dentro, perché non prendevo più farmaci né metadone quindi ero uno di cui ci si poteva fidare.
Nella mia vita non ho mai infamato nessuno, ma quelli che io credevo amici, quelli che venivano a casa mia a mangiare, quelli mi hanno fatto arrestare.
Ricordo dei particolari, stavo in una cella di tre metri per tre e il piccolo termosifone con cui riuscivo a malapena ad asciugare le mutande. D’inverno era così freddo che per scaldarmi accendevo dei fornelli che mettevo sparsi per la cella. C’era un materasso di spugna che si bagnava tutto per l’umidità così ci mettevo dei cartoni sotto per far assorbire il bagnato. C’erano tre docce alla settimana dove non potevi rimanere più di sette minuti, altrimenti il secondino veniva a spronarti. Iniziai a lavorare perché non avevo soldi, facevo il lavorante di sezione, prendevo ottanta, novanta euro al mese che bastavano solo per fumare. Alcuni veterani del carcere capirono la mia situazione e la sera mi mandavano un piatto di pasta. Mi allenavo sempre in cella e due volte a settimana andavo in palestra. Alcuni detenuti non ci credevano a quanto peso alzavo, ero riuscito a fare i centosessanta chili di panca. Mi dicevano che era impossibile “come fai?” E io non sapevo come dire ma dentro di me sapevo che era tutta la rabbia che sfogavo in quelle due ore di palestra. Lì dentro girava un po’ di droga, nelle prime carcerazioni la usavo poi ho smesso di dire sì perché la mia droga era la lucidità; vivere il carcere come mi hanno insegnato i vecchi veterani. Assaporare un caffè, godersi un gelato e starci con la testa per trovare un modo decente di uscire. Oggi non esistono più i detenuti di una volta perché ora non ci si aiuta più, pensano solo a come fregarti, anche lì dentro.

Ma vengo al motivo per cui andavo in carcere: l’eroina, quella maledetta droga che non fa altro che farti commettere dei reati per avere una dose.
A volte mi sono fermato ed ho pensato al perché di tutto ciò, non riuscivo a capire e non ne venivo a capo ma continuavo a fare reati. Ho fatto sei anni di carcere, e se non era per questo molto probabilmente avrei continuato ad usare la droga. Da una parte non è stato bello ma dall’altra lo ringrazio.
Nella mia vita ho venduto sempre cocaina, avevo in mano ogni genere di droga, avevo tanti soldi a cui non davo valore. Ho iniziato a venderla a tredici o quattordici anni, ho cominciato col vendere il fumo, dopo pochi mesi le pasticche, ma dopo ho sempre venduto più che altro cocaina ed eroina; le altre droghe erano optionals per guadagnare più soldi, ma non mi bastava. Facevo rapine, furti in appartamenti e qualsiasi cosa mi capitava tra le mani la rivendevo. I soldi non mi bastavano mai, ero entrato in un circolo vizioso, più ne avevo più ne spendevo. Una sera, mentre vendevo delle pasticche, andai a casa di mia sorella a chiedere se avesse delle pillole per il mal di testa, lei me le diede ma io  volevo solo rivenderle dando una “sola”, ma quello che credevo un mio amico mi fece trovare gli sbirri in borghese. Dallo spavento mi misi a correre e i carabinieri spararono ad altezza d’uomo ben nove colpi. Un bruciore pazzesco, un proiettile mi prese di striscio la gamba, mi presero e portarono in macchina, mi picchiarono forte e portarono in caserma. Vennero mio padre e mio cognato così arrabbiati da lasciarmi lì.
Quella volta non mi arrestarono perché ero minorenne, avevo diciassette anni. Quella notte non tornai a casa, mi feci dieci chilometri a piedi e andai a dormire da un amico.
Dopo due anni mi venne la brillante idea di spacciarmi come carabiniere; andavo dai gruppi di ragazzi dicendo che se non mi davano tutto andavo dai loro genitori, mi facevo consegnare droga di tutti i tipi, telefonini, bracciali, orologi e soldi ma fui sfortunato perché mentre mi facevo consegnare tutto, un ragazzo che aveva lo zio finanziere, lo chiamò in qualche modo e quello venne! Scappai ma dopo sei mesi scattò il mandato di cattura, mi arrestarono e venni condannato a due anni e ventidue giorni.

In carcere hai tanto tempo per pensare, ed io alla mia infanzia ci penso sempre perché sono nato nel paese più bello d’Italia, Vieste sul Gargano.
Ero un bambino vivace, ma così vivace che non c’avevo regole nemmeno da piccolo, facevo tutto quello che la testa mi diceva. Avevo sette anni e non c’erano soldi a casa, perché mio padre faceva il marinaio e lavorava lontano, così uno dei miei cugini disse che se volevo guadagnare qualche soldo mi dava della bustine con della marijuana dentro.
Mi disse di venderle a diecimila Lire. Ero piccolo ma mica stupido, io le buste le vendevo a dodicimila per andarci in sala giochi e giocare tutto il giorno. Di quegli anni a Vieste mi ricordo pure quella volta che a otto anni, con mio cugino rubammo una barca della finanza, beh quello fu il giorno in cui ebbi davvero paura perché quando ritornai a casa accompagnato dai finanzieri c’era mio padre e mi diede tante di quelle botte.
Abitavamo in una grotta adibita a casa, che poi era di mia nonna, c’era una veranda ma da quella volta mio padre ci mise i lucchetti per non farmi scappare. Di certo non fu tutto rosa e fiori, entrai in sfida con lui. Mi picchiava e io lo guardavo negli occhi, senza piangere, dicendo che più mi picchiava più avrei fatto peggio. Forse mio padre, essendo orfano e non avendo avuto un esempio dai genitori, pensava che così faceva bene perché non sapeva parlare, non sapeva come prendermi. Poi con il tempo capì che era in errore, ma anche io non ero un angelo, ero un ragazzo senza regole tranne le mie. Vivevo in un mondo tutto mio dove non ci stava nessuno che poteva dirmi quello che dovevo fare. E sbagliavo, ma sbagliavo con la consapevolezza che ero io a decidere.

Andammo via dal nostro paese, arrivammo in Abruzzo a Martinsicuro che avevo nove anni, all’inizio non conoscevo nessuno ma in pochi giorni conobbi mezzo paese.
Mi ricordo che non sapevo parlare bene l’italiano. A scuola non andavo molto bene perché non mi piaceva studiare; sono stato espulso in quarta elementare, sospeso per due giorni ché avevo picchiato un compagno di classe. Facevo finta di andare a scuola e invece andavo al centro commerciale a rubare i videogiochi. Finita la scuola, d’estate andavo a rubare i marsupi sulla spiaggia, io ed il mio amico. Pensa che una volta in un borsello ci trovammo cinque milioni di vecchie lire e quella fu l’estate più bella della nostra vita, comprammo i telefonini, c’era un luna park dove andavamo a giocare, compravamo tutto quello che volevamo.

Dopo pochi anni iniziai a fare il pugile.
Il pugilato è stato il mio primo amore, facevo tante ore di allenamento sognando che avrei fatto carriera con questo sport. Ho vinto quasi tutti gli incontri e mi sentivo imbattibile. La gente ha iniziato ad avere paura di me, ma non perché facevo il pugile, perché ero un ragazzo di strada. Comunque questo sport mi ha dato e mi sta dando tante emozioni.
Iniziai a fare pugilato quando un signore si accorse che io appena fuori da scuola mi prendevo sempre a pugni, così un giorno si avvicinò e mi chiese: ”vuoi venire un attimo con me?” Io non intimorito gli dissi ”dove?”
Con molta calma mi rispose ”voglio vedere cosa sei capace di fare in una palestra”.
Ci andai e al sacco tirai pugni alla cieca come un forsennato ma lui ci vide la tenacia. Disse che se mi volevo allenare, dal giorno dopo mi avrebbe insegnato; quando l’ho avvertito che non avevo soldi per pagare, rispose di non preoccuparmi.
Mi allenavo dal lunedì al venerdì ed il fine settimana uscivo, andavo sempre in cerca di ragazze e di guai, ovviamente. Quando divenni un po’ più grande era cresciuta pure la mia spavalderia. A diciotto anni ero diventato molto forte e non mi interessava minimamente di chi avevo davanti. Facevo sempre a botte e venni cacciato da quasi tutte le palestre. Se mi guardavano per più di due secondi io picchiavo, per questo motivo i buttafuori dei locali non mi hanno fatto entrare  per un anno intero nei locali. Senza paura litigavo anche con loro perché a me non interessava quanto fossero grossi. Io non avevo paura di nessuno. Ovunque andavo avevo rispetto, sapevo benissimo che era un rispetto fasullo perché in realtà avevano paura di me, non tutti ma la maggior parte sì. Le ragazze, avendo io un nome così, non si facevano nessun problema a venire con me, perché si sentivano importanti, al sicuro anche loro.

Ah le donne, le ragazze. Altro capitolo importante; alla tenera età di dodici anni fumai il mio primo spinello e quel giorno persi anche la verginità. Ero timido, non sapevo quello che dovevo fare, ma lei aveva diciassette anni ed esperienza, mi tranquillizzò dicendo che avrebbe fatto tutto lei. Per due anni ho fatto sesso solo con lei poi ho iniziato ad andare con tante altre ragazze. Mi ricordo che facevamo una gara: chi scopava più ragazze in un’estate. I miei amici arrivavano a dieci, dodici, io addirittura a venticinque. Non so per quale strano motivo, forse perché ero un bel ragazzo o forse perché ero sicuro di me.
Tra le tante storie che ho avuto ce n’è stata una, la tradivo sempre, non sono mai stato fedele. Stavo con lei quando mi arrestarono. Uscii dal carcere per gli arresti domiciliari e la misi incinta, non era previsto ma decidemmo di tenerlo. Nacque Stefano, mio figlio. Dopo solo un mese io partii e me andai a Praga con tre ragazze. Bevevamo e facevamo tanto sesso e non pensavo a mio figlio perché in quel periodo volevo solo divertirmi.
A volte penso di avere la malattia del sesso ma non è così, penso che sia normale a ventidue anni di avere voglia di stare nel letto con una donna. Quando sono affianco ad una donna mi sento un fuoco dentro, sento quell’euforia. Io sono un tipo molto focoso e amo la donna, però allo stesso tempo sono molto perverso, voglio assaporare ogni centimetro della sua pelle. Per me i preliminari sono molto importanti, mi piace fare ogni tipo di posizione e poi quando sono all’apice del piacere mi piace coccolare la mia partner.
Andavo sempre nei night, al padrone gli davo sempre la cocaina e io non pagavo niente, né da bere né le ragazze.
Sono stato a letto con un paio di porno dive di cui per correttezza non dico il nome ma posso dire che non le ho scopate io, mi hanno scopato loro e dirò di più, è stata un esperienza bellissima. Lì ho capito veramente cosa è il sesso.
Ho fatto tanti viaggi, l’Italia l’ho visitata quasi tutta, sono stato ad Amsterdam, Ibiza e in tanti altri posti. Ovunque andavo riuscivo ad avere sempre una ragazza. Addirittura una ci venne da Ibiza in Italia per stare con me, l’ho fatta stare un paio di mesi poi l’ho rimandata a casa.
Andavo sempre a farmi le serate con gli amici, mi divertivo tanto perché oltre alle ragazze bevevo, tiravo coca e mi facevo tante risate. Ogni tanto ci scappava una rissa, mi piaceva stare al centro dell’attenzione ecco perché cominciavo sempre io.
A volte bastava poco per finire una rissa, mi bastava un pugno per buttare a terra il mio avversario.
Sono un ragazzo alla quale piace stare al centro dell’attenzione, sono molto esuberante, sono egocentrico e sono anche narcisista, qualcuno mi dice che sono anche antisociale ma io credo che antisociali lo siamo tutti, chi più chi meno. Comunque sì, mi definisco un bel ragazzo.
Quattordici anni fa conobbi una ragazza così bella che io le facevo una corte spietata, lei mi ha sempre rifiutato perché mi diceva che ero matto. Una volta l’accompagnai con mio fratello in macchina, ci demmo un bacio, poi ci siamo persi di vista. Speravo di rincontrarla un giorno. Dopo molti anni ci rivediamo in un locale, le avevo detto che la mia ragazza era incinta però le chiesi lo stesso il numero di telefono. Ci demmo un bacio e lei se ne andò. Il giorno dopo la chiamai e mi diede buca, continuavo a scoparmi altre ragazze ma pensavo sempre a lei. Il  ventisei  Novembre del duemilanove stavo festeggiando il mio compleanno in un locale, la vidi perché lì ci stava a fare il compleanno anche un suo amico, le chiesi se mi poteva fare un regalo, un ballo con me. Dopo quel ballo le chiesi se mi poteva dare un bacio, mi disse di sì ma io non la baciai, la leccai sulle labbra. Restammo in macchina a baciarci tutta la notte senza fare sesso.
Il giorno dopo uscimmo insieme, andammo in un locale, bevemmo un po’ poi andammo sulla collina e facemmo l’amore tutta la notte. Così andammo avanti per un paio di settimane.
Lei aveva un viaggio prenotato per fare capodanno a Miami. Due giorni prima della partenza ci siamo detti che ci amavamo.  Festeggiai quel capodanno con i miei amici, ho bevuto e tirato molta coca, ma passato il capodanno ci siamo chiamati, mi mancava molto ma io non le ho detto ancora una cosa, una cosa che non scriverò neanche in questo racconto, sapevo solo che l’amavo. Lei tornò dopo solo tre giorni, eravamo come due fuochi, facevamo un gran falò io e lei, ma quando era il momento di uscire ed andare nei locali ero gelosissimo, mi arrabbiavo anche senza motivo ed è capitato che l’ho picchiata. Una volta le feci male, tanto che fece finta di svenire perché sapeva che altrimenti gliene avrei date di più.
Passarono mesi, litigavamo spesso ma poi tutto andava a spegnersi nel letto. Era amore e odio, ma più che odio era amore, c’era simbiosi tra di noi, bastava che i nostri sguardi si incontrassero e ci capivamo al volo.
Lei era così bella e lo è ancora, il profumo della sua pelle mi faceva impazzire, io facevo impazzire lei. Eravamo così innamorati che non credo che sia mai esistito un amore così grande. Io l’ho sempre cercata ed alla fine ce l’ho fatta a prenderla. Ad averla.
Dopo solo quattro mesi che stavamo insieme, mentre dormivo a casa sua vennero i carabinieri ché avevano un mandato di cattura per me, lei fu molto furba, li invitò ad entrare dicendo che non c’ero, invece stavo nascosto nell’armadio. I carabinieri andarono via, ma io le dissi che mi sarei andato a consegnare.
Mi portarono in carcere e dentro di me pensai “l’ho persa…” ma lei mi seguì, non mi fece mai mancare la sua presenza, veniva ai colloqui, ci scrivevamo tante lettere.
Quando uscii dal carcere mi venne a prendere, ero ai domiciliari quando decidemmo di fare un figlio.
Poi litigammo, di nuovo ero fuori di me, ricominciai a vendere fumo e cocaina, con cui ho fatto un po’ di soldi ma fui egoista; spendevo solo per me e a lei non davo niente. Questa storia durò poco, con lei incinta di cinque mesi, per un infamata mi riportarono dentro.
Vi lascio solo immaginare come potevo stare. Uscii, per gli arresti domiciliari, si è lei, è la mia donna, ma insieme a lei adesso c’era nostra figlia, Suami, che significa amore, una bambina bellissima. La tenevo in braccio e cantavo le canzoni napoletane perché a me piace cantare. Purtroppo quel  periodo felice durò solo dieci giorni.
Di nuovo dentro per un “definitivo” di due anni e sette mesi. Lei non si perse d’animo, mi seguiva ovunque mi trasferissero, portava la bambina ai colloqui e a me dispiaceva tanto vederla con mia figlia dentro un carcere.
Questo calvario durò un anno e sette mesi fino a quando venni trasferito in comunità.
Dopo un mese lei e mia figlia vennero a visitarmi anche in comunità, ero felice perché non vedevo i miei amori in quel maledetto carcere.
Dopo pochi mesi ebbi un  permesso per andare a casa per sei ore, non era previsto ma lei resta incinta di nuovo. Eravamo un po’ preoccupati all’inizio perché io non ho un lavoro e non ho niente da offrire ai miei figli tranne il mio cuore, ma ci facciamo coraggio e andiamo avanti.

In comunità le cose non sono andate molto bene, perché ci stanno le regole, queste regole che io ho sempre rinnegato, rispettando solo le mie. Mi bloccarono la verifica (la verifica è un permesso di qualche giorno per tornare a casa dai tuoi), io mi arrabbiai e volevo ritornare in carcere. Solo dopo a mente fredda ho capito che non potevo abbandonarla di nuovo e perderla.
Ho cominciato a comportarmi bene, ogni mese andavo a casa. All’inizio andava tutto bene, contenti di stare insieme, di dormire insieme, ma con il passare del tempo le cose cominciarono a prendere una brutta piega. Non so perché in lei è cambiato qualcosa nei miei confronti o forse sono io che sono cambiato, non le piace più come sono diventato. Dice che penso solo a me stesso, che sono egoista, che mi curo troppo, curo troppo la mia immagine, ma io sono sempre stato così. Forse prima non lo vedeva perché presa da altri aspetti di me. Non sono perfetto né lo diventerò mai, però intendo proseguire il mio cammino. Non posso diventare come lei vuole, io sono così e non posso farci niente, però di una cosa sono sicuro, non farò mai più mancare la mia presenza ai miei figli, ho dei progetti e vorrei portarli a termine; lavorare e fare una vita normale. Sì, quella vita che a molti sembra monotona ma per me è l’inizio di una nuova e grande avventura.

Questo è il mio racconto dettato dal cuore.

M.P.

Amo le donne, che mille anni fa da poeti erano amate e celebrate.
Amo le città, le cui mura vuote piangono le famiglie reali di tempi remoti.
Amo le città, che risorgeranno quando dell’oggi non vivrà più nessuno.
Amo le donne, snelle, meravigliose, che ancora non nate riposano nel grembo degli anni, assomiglieranno allora con le loro bellezze pallide come stelle alle bellezze dei miei sogni.

Hermann Hesse

 

Unknown

Antonio Moresco, classe 1947, quello di “Canti del caos” e “Gli esordi”, scritti anni fa e sempre rifiutati dall’editoria, poi negli anni tra varie vicissitudini ristampati  da grandi editori  (Feltrinelli, Rizzoli, Mondadori), i titoli citati, congiuntamente con la prossima pubblicazione de “Gli increati”, che attualmente è ancora in fase di stesura, verranno presto a far parte di una importante trilogia: “L’increato” (Mondadori).
Oggi tra i più grandi narratori italiani, i suoi romanzi e lavori letterari hanno trovato diffusione e successo solo nell’ultima parte della carriera letteraria, pressappoco dallo scorso decennio, a quasi 60 anni di una vita difficile e davvero “on the road” che a volte, spesso, è tradotta cruda nei suoi scritti, da cui traspare lucida.
Tra gli altri romanzi, raccolte, lavori teatrali e saggi degli anni precedenti, nel 2010 vede la luce “Gli incendiati” e nel 2013 “La lucina” ambedue per Mondadori con cui ultimamente sembra aver stabilito un progetto editoriale a lunga scadenza.
Nel 2003 è stato tra i fondatori del blog collettivo “Nazione Indiana” da cui uscì con altri membri nel 2005 per fondare la rivista telematica e cartacea “Il primo amore” da cui traggo la sua presentazione di Gennaio di questo meraviglioso libro.

Amilcare Caselli
http://www.ilprimoamore.com/blogNEW/blogDATA/spip.php?article2023

Non nuovo a cimentarsi nelle fiabe, come “Le favole della Maria”  (Einaudi 2007)  e “Storia d’amore e di specchi. Una favola”, (Portofranco, 2000),  questoFiaba d’amore” (Mondadori collana Libellule 2014, pag 160, 12 E. ISBN 9788804638582) è la storia di un barbone, di un vecchio pazzo e della ragazza meravigliosa che lo raccoglie, accoglie ed ama. Scritta come sempre magistralmente da Moresco, con stile puntuale e descrittivo fino al maniacale ma in punta di pedi e delicato come un fiocco di neve pronto a sciogliersi al calore del sogno, la vera storia “la fiaba” parte però dalla fine di questa iniziale storia d’amore, perché poi, così come era stato raccolto ed amato, egli viene lasciato, abbandonato e, lontano dall’amore e dal calore di quella nuova vita, il vecchio s’incammina verso la città dei morti. Come un saggio indiano che si denuda, si affida al nulla, all’insperabile,  si addentra nella foresta delle rinunce, egli si dirige verso il regno dei morti ma qui dove ogni speranza terrena finisce, Moresco supera d’un balzo la soglia del reale e trascende meravigliosamente.
Meditazione estrema e inattuale sull’amore, sotto un velo di desolata e struggente dolcezza,questa fiaba controcorrente indica un diverso cammino, un altro approccio alla realtà, propone un nuovo sguardo sugli oscuri orizzonti odierni, ricreando una  formula per l’immaginifica invenzione della vita e del mondo.

Con il placet della Mondadori vi consiglio di leggere il primo capitolo dell’Ebook dal link qui sotto.

http://leggere.librimondadori.it/antonio-moresco-fiaba-d-amore/

Ah quasi dimenticavo, il barbone, il vecchio pazzo si chiama Antonio…

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 […]
Baba. Si chiama Baba e devo aver avuto il suo numero sul cartoncino dei fiammiferi di un Super8 motel fino a qualche anno fa, in un cassetto.
Baba me la presentò Charles. Charles lo avevo conosciuto un giorno di Giugno andando verso sud sulla 2nd da Nashivlle downtown. Dopo un chilometro, un paio di grandi mall, un porno shop e un cavalcavia, la Second Street passa nella South City, la suburbian con le strade dritte e larghe, coi negri stesi al riparo dal sole nelle verande, dietro le staccionate delle case di legno dipinte verdechiaro, scrostate, che cadono a pezzi, mentre i figli giocano in strada e spacciano crack tra le macchine in sosta e agli angoli degli isolati.
“U wanna do’ man… Do ya wan’ that fucking dope man?”
Non risposi subito ma si vedeva che Charles era diverso, forse da come si muoveva, perché sembrava frocio, ma non solo quello. Era attaccato con le due mani alla portiera e con la testa piena di ricci sbirciava dentro, occupava la luce del finestrino aperto. Il suo profumo troppo dolce e forte mi impedì di rispondere.
“Vai! vai!… Li vedi quelli?” 
Veloce salì in macchina indicando tre o quattro ragazzetti coi jeans enormi, fuori taglia e calati sotto al culo, canottiera e bandana.
“quei motherfucker là, baby stai lontano da loro, tu sei yankee, ti odiano, ti rubano i soldi”
E rideva, malediceva col dito medio e rideva. Dimostrava si e no diciassette anni e profumava come una puttana. Io non parlavo, pensavo solo che l’olezzo mi sarebbe rimasto in macchina per un bel po’.
Ma c’era qualcosa di gentile, come la consapevole, ironica rassegnazione alla sconfitta di certi vecchi habitué dei casinò, in questo ragazzo nero che adesso si guardava nel retrovisore con fare da femmina.
“Objects in the mirror are closer than they appear”
“Veramente odiano pure me e mi pestano, quelle merde fottute, mi rubano pure i pochi soldi che alzo, quegli asshole!…Vai, vai… Gira qui. Vuoi roba man?” e sorrise di nuovo.
Avevo in macchina un negro, spacciatore fallito e drogato. Frocio e pure discriminato dai suoi fratelli.
“Bella macchina, come ti chiami fratello. io Charles, ma ti prego non chiamarmi Charlie”
Pronunciò Charles all’inglese, trattenendo il suono in gola. Charlie invece lo disse strascicato, come tutti gli accenti del sud.
“vai… Sì vai, vai, se vuoi la roba buona andiamo da mia cugina Baba. Sì, gira qui a Lafayette a destra e poi giù per la Cannon” 
disse scivolando all’improvviso dal sedile fin sul tappetino di moquette grigia, facendosi il segno della croce: stavamo passando davanti la chiesa metodista del quartiere, da cui uscivano donne enormi, 150 chili di carne nerissima, vestite di bianco e di pizzo coi mariti in gessato beige.
“Cazzo, mia zia, vai…”
Charles mi piaceva e mai e poi mai m’è venuto in mente di chiamarlo Charlie.
 ****
“Non mettere la macchina davanti. Mai mettere la macchina davanti casa di Baba, specie questa che è da bianco, meglio là dietro” 
Scendiamo da un viottolo sul retro, nel backyard. Il primo passo che ho fatto con gli stivali appena comprati in centro a Church Street sollevò uno sbuffo di polvere di terra.
Nella casa di Baba si entrava dal retro ché davanti, dalla Cannon, sembrava disabitata. Serrata.
Era azzurra, sbiadita, di fasce di legno leggero sovrapposte. Alle finestre assi inchiodati.
Il backyard era di terra rossa e secca, come il cielo di carne senza pioggia di quei pomeriggi;
Ancora lo ricordo bene quel primo passo. Lo ricordo al ralenty come quello di Armstrong nel 69. Tanta polvere rossa, solo che in tv era grigia. In bianco e nero. C’erano due pali storti, ficcati male in terra, corde per stendere panni ad asciugare, alcuni piccoli e colorati. Ci sono bambini.
Un furgone Ford, giallo e senza ruote, su pile di mattoni, pitturato a mano, e qualche scritta hippie venuta male. Il portellone scorrevole aperto con dentro due divani strappati e un tappeto lurido. Bottiglie di birra vuote e spaccate, posaceneri stracolmi, una cassetta di Pepsi faceva da tavolino e resti di cibo di una festa e di un fuoco, troppo vicino al Ford pensai. Una rivista porno nella polvere.
“vedi – mi fa Charles – qui nel quartiere ogni tanto si fa festa, la prossima ti chiamo, anzi dammi il numero che ti bippo col cercapersone”. Avevo notato che molti neri della suburb avevano il cercapersone alla cintura.
Era un buon metodo, economico e sicuro per gli spacciatori, per avvertire i clienti e viceversa.
Avrei scoperto che ogni quartiere aveva un suo codice. Per il southeast suburb di Nash e sopratutto per questo slum un bip era ok, due bip aspettare e richiamare, tre si andava a domani ché c’erano problemi o troppi cops in giro.
Li chiamano slums o ghettos i quartieri, i neighborhoods chiusi da mura da dove si entra da una parte e si esce solo da un’altra. I ghetti dei neri sono piccole città stato che vivono di vita, morte, clan, spaccio, feste e funerali propri. Venti o trenta casermoni di mattoni rossi tutti uguali, un piccolo parco uno square col cesto da basket e alcune vecchie casette di legno con veranda.
“La prossima festa ti chiamo e se tu mi dai 20 bucks (dollari) per farmi le treccine, ti porto la meglio coca e crack di south nash. Vedi come sono ridotto. Sono nappy, i miei capelli sono nappy”. 
In effetti Charles aveva un testone assolutamente afro anni 70, secondo me era bellissimo.
“sei come Jackson da bambino” gli faccio.
“no i miei capelli fanno schifo e non ho 20 dollari per sistemarmi le treccine”
Lo sterrato sembrava finire contro le pareti di legno a balze azzurre del retro ma Charles si infilò in una siepe, di lato, strusciando tra quella e la rete del vicino. Un metro e mezzo e ci trovammo davanti a una porta.
Entrando fui subito accecato dal buio. Non so se era più forte l’odore di muffa o lo stantio di qualcosa andato a male perché subito ho avuto dei violenti conati. Se respiravo a fondo rischiavo di vomitare. Prendendo poca aria alla volta speravo di abituarmi. C’era silenzio.
Avvertivo Charles che si allontanava per un corridoio stretto e buio. Tentai di seguirlo mentre le pupille cominciavano a mettere a fuoco enormi cataste di vestiti e biancheria che puzzavano.
“hey”– mi arriva una voce tra due mucchi – wassup man” faccio io passando, fingendo tranquillità. Sento altre voci. Qualche risata dagli stracci.
C’era gente in quell’oscurità, e odore di cibo marcio.
Dove la stanza si faceva più larga vidi un letto, mi ci diressi. Mi sembrò di avere un malore perché persi quasi l’equilibrio, il pavimento affondava di lato ad ogni passo e così, appoggiandomi alla parete, vedo Baba.
***
Stava lì, vicino al letto, piccola e magra con le mani sui fianchi, la testa reclinata di lato gonfia di capelli nappy come Charles di cui adesso mi arrivava la voce, si era fermato a litigare con qualcuno per un pippotto di crack che secondo lui gli doveva.
Il legno marcio, i mucchi di stracci e le tende rosse e pesanti alle finestre, facevano arrivare le voci e i rumori come dall’altra parte del mondo ma lei era lì difronte a me. Jeans e maglietta troppo grandi, tutt’ossa, doveva essere stata bella, gli occhi neri e seri nei miei. La bocca all’ingiù.
Il colorito da mulatta ma grigio sotto agli occhi. Le braccia troppo magre come il collo.
Le uniche luci della stanza erano le stelle gialle della corona illuminata di una enorme Madonna di plastica appesa al muro del letto e una abat-jour con una lampadina di vernice rossa.
Nella camera vidi soprammobili, una bici da bambino, pannolini, siringhe e scatole vuote di medicinali, pipe di vetro scurite dal crack, due bambole, una bionda e una negra, i resti di un panino sulla carta del burgerking e lattine vuote di pepsi in un angolo della moquette grigia. Il sole filtrava a raggi dalle assi alla finestra, splendendo immobile sul pulviscolo.
Baba si avvicinò guardandomi negli occhi, sempre con le mani sui fianchi, fino a un palmo dalla faccia, guardandomi dal basso col collo magro e teso verso me, come a dirmi che cazzo vuoi. Cosa sei venuto a fare tu qui. Non vedi che inferno. Volevi vedere l’inferno, beh eccotelo. Ma non disse niente.
Continuò a guardarmi con quell’aria di sfida e disse solo: “not here”. 
“not here what” feci io.
“i sleep here with my kids”. 
“ok. not here” ma continuavo a non capire. Mi sfiorò passandomi davanti camminando con una strana tecnica collaudata per quel pavimento elastico; pensai che fosse brava a ballare. Pensai alla festa che avremmo fatto nel ford dietro casa.
Entrò in una porta, si fermò un attimo e mi fece cenno di seguirla. Era uno stanzino, forse una lavanderia che era poco più di un bagno di cui ricordo l’odore di piscio e la lavatrice che faceva una chiazza marrone per terra.
Baba prese un asciugamano, lo stese per terra, su un materassino tra la doccia e la macchia marrone della lavatrice; poi sempre guardandomi si sfilò la t-shirt, così vidi le costole, le spalle, quello che una volta dovevano essere stati dei grossi seni e i grandi capezzoli di chi ha allattato troppo. Guardavo i particolari, solo i particolari, persino come buttò la cicca di sigaretta di cui sentii lo sfregolìo centrando il buco del cesso. Sentivo a fondo solo i particolari. Si tolse i jeans e li piegò per bene, con cura, sulla lavatrice, rimanendo in mutande che poi sfilò dai piedi, alzando a turno le ginocchia. Ora aveva le braccia lungo i fianchi mentre io riuscivo a pensare soltanto che il corpo nudo al di là di ogni fattezza è sempre tragico e vittorioso.
Baba mi guarda, mi esorta, “so what man” 
A quel punto mi riprendo, capisco e tendo le braccia in avanti.
“no Baba no, non ci siamo capiti. There’s a misunderstanding. No, ok no. What the hell… No!”
Uscii da lì come un ladro, il respiro corto, cercando Charles che stava con un tipo dall’accento spagnolo e fumava crack giallo da una cannula di vetro ormai nera come la sua pelle.
“Hey” mi fa “tutto bene culo bianco?” 
“Tutto bene un cazzo, vieni qui brutto stronzo rottoinculo. Per chi cazzo mi hai preso? Volevo solo della roba e tu mi sa che sei peggio dei tuoi amici del quartiere. Quella mi si è spogliata davanti credendo che la volessi pagare per scopare, stronzo. Tu con me il pappa non lo fai. Motherfucker di un nigga’s asshole!”
“Ok calma” mi fa Charles “ma è normale, vedi, Baba adesso ha finito la roba e quando finisce la roba finiscono i soldi e qui diventa ‘sto casino che vedi. Senza la roba scoppia il delirio, non ci si capisce niente, la gente entra ed esce come vuole, you know what i mean, lei è di là che dorme con gli psicofarmaci o sta a letto ché sta male. Quando sta meglio se ce la fa lavora, lava i panni per i vicini, oppure batte per alzare qualche dollaro. Allora succede che i figli li affida a qualche donna sicura del vicinato, prima che glieli portino via i servizi sociali. Lei fa di tutto per alzare due soldi, you know, e se tu volevi fare l’amore, man, poi coi soldi e col regalino lei c’andava a prendere la roba buona qui vicino, che solo lei ci può andare da quei negri bastardi. Ché a quelli mica gliene frega niente dei figli o di chi sta male, vogliono il cash e basta, you know what. Poi la roba si vende, si fa un po’ di festa e si tirano su un po’ di soldi col crack, perché Baba c’ha un tumore e le hanno detto che non va avanti per molto ma lei ci vuole provare a tirare su due soldi anche da lasciare a Mike e Sunny, i due figlioletti, prima di andarsene, you know what i mean….”
Tirai fuori  cento dollari dal portafoglio e tornai da Baba che adesso stava in ginocchio sul letto, contando le gocce che da un flacone scendevano in un bicchiere. Le ho steso il centone senza dire una parola. Lei lo ha preso guardandomi, mettendo in orizzontale il flacone, fermando le gocce.
Mi guardò con lo stesso sguardo di prima. “Appreciated”, disse.
Girò in verticale il flacone, la prima goccia ci mise un po’ per uscire e cadere nel bicchiere.
“twentyone…. twentytwo…” diceva Baba, soffiando piano tra le labbra, senza suono.
***
Amilcare Caselli

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Ho 21 anni e sono nato in Marocco, in uno dei quartieri di Casablanca. Sono l’ultimo di 4 figli. Ho due sorelle e un fratello.

Mio padre aveva due negozi di abbigliamento e non ce la passavamo male, se non quando mio padre picchiava mia madre al ritorno dal lavoro. O era ubriaco o andava con le donne e se me ne accorgevo io figuriamoci gli altri. Mio padre non parlava mai e menava, insultava tutti, sopratutto a mamma. Sarà che in Marocco una volta i matrimoni erano combinati tra famiglie e, in fondo forse, quella famiglia lì mio padre non l’aveva scelta lui e ci stava male, oppure non lo so, ma picchiava mia madre che è l’unica cosa bella che ho avuto dalla vita.

Poi mio padre smise anche di lavorare. Vendette uno dei negozi, erano un mucchio di soldi, e mamma andava a gestire quello rimasto ma le cose andavano sempre peggio, anche con i soldi ed il lavoro. Lui non parlava più, se la prendeva con tutti, sopratutto con mamma quando tornava a casa.

Io andavo a scuola, ero anche bravo ma a casa era un inferno. Un giorno per una cosa di scuola, una nota mi sembra, mio padre mi rinchiuse nella stanzetta e mi picchiò con l’antenna della televisione.  Ricordo di essere cresciuto all’improvviso in quella stanza. Provai a difendermi e proprio quando mi sembrava dovessi svenire dal dolore gli dissi che non mi faceva niente, che non sentivo niente, poteva andare avanti a frustate con l’antenna ma io non avrei sentito niente. Forse fu da allora che cominciai a stare fuori il più possibile, con gli amici, le prime canne, l’hashish e poi le pasticche, l’alcool ed il Rivotril, che mi faceva dimenticare tutto e stavo leggero.

Casablanca è una di quelle città moderne, grandi, dove trovi di tutto, dai morti di fame a quelli che girano in Lamborghini, discoteche e stadio. Un gruppo di amici, crescevamo tra pasticche e canne, piccoli furti e bravate ma a scuola riuscivo ancora a cavarmela.

Col passare degli anni le cose andarono ancora peggio. Una delle mie sorelle rimase in cinta del suo fidanzato e le famiglie non erano d’accordo per il matrimonio. Il suo fidanzato fu costretto ad emigrare in Germania dove aveva dei parenti, riuscì a farle avere dall’Italia un invito per un falso lavoro e quindi lei scappò dal Marocco appena possibile, lui la raggiunse qui e si sposarono. L’altra sorella sposò un marocchino con cui ancora adesso vive vicino Casablanca. E’ lei a gestire la nostra vecchia casa e l’affitto del negozio, perché poi ce ne siamo andati tutti. Mio fratello più grande riuscì anche lui, tramite mia sorella, ad avere un’altro falso invito di lavoro e partì. Dopo un po’ mia madre che non ne poteva più emigrò anche lei.

In casa rimanemmo, per un periodo che a me sembrò un’eternità, solo io e mio padre. Lui beveva molto e non lavorava, forse già cominciava a stare male col diabete ché poi gli hanno dovuto tagliare la gamba. Stavo fino a 10 giorni fuori casa.
Da noi in Marocco, anche se i quartieri sono grandi, non è come qui.  Le case degli amici sono aperte e siamo tutti quasi come parenti. Stavo dagli amici d’infanzia e le loro madri le chiamavo zie. Mio padre cominciò a stare sempre peggio, così i miei fratelli organizzarono un invito. Io che ero minorenne sono dovuto venire con lui.

Mi ritrovai in Italia che dovevo finire le superiori. Scelsi l’alberghiero e la lingua non è stata un problema. Parlo arabo e francese e l’italiano mi è venuto subito facile. Mi dissero che ero molto intelligente e mi promossero, ma la cosa difficile non fu quella: la cosa difficile fu entrare nel giro. Avevo pensato che fosse facile avvicinare i fratelli arabi, tunisini o marocchini o nigeriani; tutti parliamo francese e arabo; io cercavo il fumo ma nessuno si voleva compromettere, forse perché ero troppo giovane, avevano paura. Poi ho conosciuto un ragazzo di padre nigeriano e madre italiana, lui parlava francese e italiano. Ci intendevamo a meraviglia e lui il fumo ce l’aveva sempre. Faceva parte di una cricca di marocchini che andavano a rubare per comprare il fumo da rivendere e facevano solo quello. Ho imparato con loro le varie tecniche di furto: in spiaggia d’estate, nei negozi di abiti o di elettronica e a fare gli scippi. Ormai ero nel giro, avere un quartino d’eroina da sniffare fu solo una conseguenza: mi feci accompagnare in una città qui vicino dove c’è uno stabile enorme, tutto abitato da extracomunitari. Lì mi feci il primo tiro di roba e cocaina. Sentivo caldo anche se era pieno inverno e non mi sentivo più uno straniero. Mi sentivo grande e rilassato, tranquillo e forte in mezzo ai miei fratelli. La seconda volta che sono andato ai palazzi mi sono fatto in vena ché dicevano del flash, un effetto potente e non sprecavi niente. Lì cominciai a volere la roba e la coca tutti i giorni.

Mia madre lavorava ma non aveva un conto corrente in banca. I soldi li teneva in contanti, nascosti in casa e per me fu un gioco da ragazzi rubarle mille euro. Ci comprai tanta roba e spacciavo, ormai mi facevo tanto e ne avevo bisogno. Anche spacciando ero sempre a corto di soldi e continuavo a rubare.

Una mattina, senza soldi nemmeno per un grammo, vidi passare davanti casa una signora con una grossa collana d’oro. Sapevo la strada che faceva, la seguii, la superai ed aspettai dietro l’angolo. Le ho tirato la catena dal collo così forte da farla cadere in terra. Mentre tiravo lei urlava, credetti di ammazzarla, la catena non ne voleva sapere di venire via tanto che pensai di lasciar perdere, poi con uno strattone deciso si spezzò e caddi all’indietro. Corsi via inciampando di nuovo, col cappuccio della felpa ben calzato in testa, mentre quella gridava ancora; meno male è ancora viva, pensavo correndo come un pazzo. Ho aspettato due giorni in casa in attesa che le acque si calmassero. Ho rivenduto un pezzo d’oro della collana per farmi e poi il resto in un compro oro di una città qui vicino. Si vedeva che quello del compro oro era abituato. Era chiaro fossi minorenne, non italiano e con una collana spezzata ma non chiese niente, tantomeno i documenti. Mi diede i soldi senza fiatare; lì vicino c’erano i palazzoni dove avrei comprato subito la roba.

Mi fecero cambiare scuola; in quel periodo avevo sempre la roba, andavo in bagno per una pera di roba con un po’ di coca e rientravo. Se mi telefonava qualche cliente per lo spaccio uscivo e davo le buste. Ormai il mio giro era quello degli spacciatori: marocchini, tunisini ma sopratutto nigeriani. Un nigeriano mi dava la roba a credito o da tenergli ed io gli curavo il mercato dei giovanissimi come me, quelli che volevano farsi dopo che magari si erano anche impasticcati.

Con la polizia io non c’ho mai avuto grossi problemi, la nostra era una rete ben organizzata e ci accorgevamo delle perquisizioni o degli appostamenti. Ci avvertivamo coi cellulari e riuscivo a buttarla o a imboscarla prima. Ho avuto due perquisizioni a casa ma non ci feci trovare niente, né soldi tantomeno la roba.

Mi servivano soldi per almeno 5 grammi al giorno, ero diventato un bastardo anche se non lo sono mai stato di indole e per educazione, ma spacciando non era facile. Continuavo a rubare ma il colpo grosso lo feci a casa: rubai tutto l’oro e un po’ di soldi, avevo il codice del bancomat di mio padre, lo teneva in un foglietto nel portafogli, così una notte presi la tessera e ritirai il possibile in due volte: mi sembra 500 euro. Poi tirai su più soldi possibile con le buste di roba e coca e qualche fregatura a qualcuno. Avevo sentito parlare di Napoli, tutti ci andavano a comprare di tutto e quel giorno ci andai. Presi il pullman scendendo drittamente alla stazione di Napoli. Sono stato lì un po’ cercando di sgamare qualche tossico. I tossici li riconosci a prima vista e quello a cui domandai era proprio un ragazzo buono, sembrava un barbone ma era buono. Anche lui andava a prendere la roba, c’era solo da scegliere se andare ai “puffi” a Secondigliano, ai “celestoni” o alle “vele”. Prendiamo l'”R5″, dice lui, il pullman dei tossici che ti porta proprio lì. Andiamo che ti offro io, dico.

Roba e coca la vendevano a fialette, dei piccoli contenitori da 0,4 grammi, a 12 o 13 euro l’uno. Fu in quei giorni che rimasi “sotto” davvero con la cocaina. Avevo tanti soldi da spendere e ci rimasi una settimana.  Il mio amico dormiva o alla stazione, ed io con lui, oppure in un cinema chiuso da anni forse per incendio, proprio davanti al posto di polizia ma per noi era come se non ci fossero. Dormivo quando mi facevo di eroina e il calo della coca me lo permetteva. Appena sveglio tornavo ai quartieri di Scampia e ricominciavo. Non so dirti bene quei giorni come sono passati ma se ci penso fu come un sogno. La cocaina ti fa vivere in un film che diventa sempre più brutto e pauroso, verso un finale da incubo.

Dopo una settimana sono tornato e ho ripreso il pullman con addosso tante di quelle fialette. Ormai ero nel pieno della paranoia da coca e vedevo persecutori e complotti dappertutto.  Quel pullman lo presi diverse volte, avanti ed indietro per Napoli, ed ormai la coca mi faceva delirare.

Per dirtene una: stavo tornando qui, ogni tanto mi alzavo e andavo nel bagno a farmi uno schizzo di coca, condito da un po’ di roba per calmarmi. Cominciai a pensare che tutti nel pullman avessero capito che cosa facevo e chiunque facesse una telefonata per me stava chiamando gli sbirri. Ero ormai nel delirio paranoico più totale. Figurati che ad un certo punto mi cadde una fialetta che rotolando arrivò qualche sedile più avanti. Fui sicuro che uno dei ragazzi se la mise in tasca, ma credo che lo immaginai soltanto. Il mio delirio li vide chiamare la polizia al telefono dicendo “adesso ho le prove” e probabilmente invece, stavano solo chiamando casa. Stavo impazzendo, volevo uccidere tutti in quel pullman, vedevo mostri dappertutto.
Quei ragazzi scesero ad un paese ed io dietro. Dissi al conducente di aspettare un attimo che quelli mi avevano rubato il portafogli, scesi e li raggiunsi. Sentivo gli occhi tutti puntati su di me.  Minacciai quei ragazzi dicendo che ero un mafioso che venivo da Napoli e si sarebbero ficcati nei guai se non mi avessero ridato la fialetta di coca.
Mi guardavano come una scimmia nella gabbia dello zoo. Non capivano ed io ero come pazzo. Il pullman suonò che doveva ripartire, minacciandoli di morte risalgo; alla fine era solo una fialetta ma il pensiero di essere fregato mi faceva tremare. Rientro nel pullman e vedo che tutti mi guardano, tutti telefonano, tutti contro di me, tuti sanno tutto e quello lì col bambino che mi fissa, penso, lui è un poliziotto. Insomma la follia. Il delirio. Questa è la cocaina, in preda a manie di persecuzioni immotivate scendo 3 fermate prima, pensando vi ho fregati tutti, brutte spie e me ne torno a casa a piedi, facendo strade poco frequentate, camminando rasente i muri. Ogni tanto mi infilavo in un portone o nel cesso di un bar per farmi e ripartivo, guardandomi indietro, nel buio. Mi fermai in un bar, con la scusa di una birra imbosco la roba in una siepe lì fuori. C’erano dei ragazzi seduti per una birra come me: mi convinco che sapevano tutti che ero stato io a scippare la collana della signora. Con la testa ero tornato all’anno prima. Li sentivo dire “io lo ammazzo, lo ammazzo è stato lui”. Ero convinto che sapessero di me e per tutta risposta mi alzai di scatto, pagai la birra e dietro la siepe mi feci ancora di coca. Rimasi stordito dai fischi e dai sibili che un amico chiamava “San Siro” un frastuono da stadio nella testa e rimango lì, ghiacciato, incapace di fare null’altro che tremare, credendo così di scacciare quei fantasmi nel cervello che invece si moltiplicavano.

Ormai non mangiavo più nulla che non vomitassi quasi subito. La mia salvezza è stata l’epatite che mi sono beccato con tutta quella schifezza nelle vene. Mi chiamarono dal Sert dove andavo a prendere il metadone e dove avevo fatto le analisi. Mi dissero “devi venire subito qui”. Avevo le transaminasi altissime, in ambulanza mi portarono in ospedale al reparto infettivi. Sono rimasto lì venti giorni col metadone e coi medicinali che mi hanno quasi cancellato dallla testa quel periodo ma ce l’ho fatta. Ho cominciato a realizzare che a nemmeno 20 anni avevo rubato tutto l’oro di casa e tutti i soldi di mia madre.
Gli spacciatori che non avevo pagato mi cercavano e la polizia sapeva tutto di me. Mi guardo per la prima volta e mi rendo conto che stavo male, se mangiavo vomitavo tutto e l’epatite mi avrebbe ucciso.

Do retta a mia madre ed entro in comunità dove sono ormai da un anno e mezzo. In questo anno e mezzo sono scappato, rientrato e fuggito di nuovo diverse volte ma sono ancora qui. Ne ho fatte di pazzie anche qui dentro e prima restavo o tornavo solo per il pensiero dei i problemi che mi portavo addosso. Oggi lo faccio per me, perché ero diventato un animale, uno pronto a tutto per una dose, io non sono così. Io non sono quel mostro che diventi con la coca. Lo so. Sono tornato ad essere Mussulmano, non praticante ma credente e faccio questo, adesso, anche per Dio. E per dimostrare qualcosa a mia madre, alla quale, se servisse, darei la mia vita.

da “Storie” Amilcare Caselli

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Vincenzo Maria Oreggia, nato a Milano nel 1966 ed attualmente residente nelle Marche a San benedetto del Tronto, è autore di racconti, romanzi e sceneggiature per cinema. Viaggiatore permeato da diverse culture, ha realizzato documentari e condotto ricerche in ambito fotografico, Trascorrendo lunghi periodi in Africa Occidentale. Collabora, occupandosi di letteratura e teatro, con periodici e quotidiani nazionali. Tra i suoi libri: “Prossimi alla conclusione” (1995), “Archivio di voci” (2005) e “Pesce d’aprile a Conakry” (2010). 

Ma Vincenzo, oltre questo, per noi è un amico ed una persona speciale. In occasione della recentissima pubblicazione di “Questa non è la mia patria”, che segue la storia di un immigrato nel nostro paese, ci regala un suo scritto, anche ricordando questo drammatico Giovedì 3 Ottobre, di cui le cronache ricorderanno il numero dei cadaveri dell’ennesima strage, nel canale di Sicilia, di uomini donne e bambini che scappano dalla guerra e dalle miserie.

Amilcare Caselli

“Ho scritto questo libro in una notte durata otto anni, per uscire dalla dipendenza da un insulso, sordo, cocciuto male che devasta l’anima. L’ho scritto per curarmi dal male dell’indifferenza, quest’abitudine collosa, pigra, abulica, di credersi sufficienti a sé stessi, caparbiamente trincerati dietro i fragili bastioni dei propri desideri, le proprie aspettative, il proprio giro, incapaci di donarci al nuovo, mescolarci, contaminarci con schegge e universi differenti. La scintilla è partita da una prossimità e un racconto. L’incontro con una ragazza ecuadoriana e le sue parole che mi hanno rivelato la crudezza di un pianeta sconosciuto e una polvere di sensazioni e sentimenti che ho voluto respirare, fare miei, così che rielaborandoli mi trasformassero, prendendo maschera e pelle di qualcuno fino a prima ignoto.

Ho scritto per sporcarmi, per diventare quello che non sono e insieme a lui raccontare anche un poco di me stesso. In questo libro sono diventato Elisabeth, che è diventata Nevio, il mio clandestino eroe, che ho seguito su e giù per la Penisola, e più oltre, fino a Quito, nel momento in cui il suo paese conosceva un grave collasso economico e sociale: un toccare nudo e crudo il fondo che avrebbe stimolato più tardi una rinascita, la rivoluzione socialista attualmente più rilevante e decisiva dell’America Latina. Fu la miccia, nel 1999, verso la detonazione del grande volo transoceanico, l’avventura migratoria del ventottenne che raggiunge una madre già emigrata qui in Italia. Ho mescolato cronache veridiche, reinventato un cupo diario personale e aggiunto fantastiche appendici snocciolando piano le pagine di un romanzo mio e di un altro. Mio e di Juan José Nevarez, che finisce per smarrirsi nel dedalo burocratico riservato agli immigrati e nel malcelato razzismo di un’Italia per troppi versi misera, bugiarda.

Il mondo intero ha congiurato intorno a questa storia, cresciuta a un passo dalla fine del millennio scorso, in una stagione, come ormai lo sono quasi tutte, di tempi alquanto incerti, baraonde climatiche e sconvolgenti piogge torrenziali. Equilibri sovvertiti dentro e fuori, allarmi dappertutto, e l’ecuadoriano travestito da perfetto manager che corre lungo l’autostrada riportando a Milano una valigia dal contenuto ignoto. Affare malavitoso, estraneo alla natura eppure accettato da un giovane umiliato da un calvario di penosissimi trascorsi e tuttavia pronto a gonfiare ancora il cuore al minimo autentico richiamo. Rinasce la sua fede umana tra le braccia di una sorella nata a Lagos accompagnata nella stanza di una pensioncina per incontri a pagamento. Siamo al Vangelo dei negletti, l’unico possibile. E’ un Nevio ormai distrutto e salvo, dal cammino buio e illuminato, una cattiva strada che resuscita in gocce di splendore ramazzate molto in basso. E’ lo stesso Nevio che non perde mai il ricordo di una coppia di elefanti sequestrati a un circo per un errore sui documenti di ingresso in territorio nazionale. Ritagli di giornale che conservo ancora a casa, forse, in qualche angolo della libreria: due giganti stretti in gabbia che mi hanno rubato gli occhi nel corso di serate solitarie in un bar di vino bianco e gazzosa sulla riviera: cronaca provinciale che ho prestato tale e quale al mio distante omologo. Il suo viatico simbolico e concreto, la sua più cara compagnia nella bufera, un attimo di pietà e di quiete al centro del vortice degli spettacoli umani.

Ho scritto questo libro per tentare un poco più di verità, per raccontare e raccontarmi di chi ci vive accanto e non proviamo neppure a immaginare. Lo ricordo in un giorno, questo di giovedì 3 ottobre 2013, che non è triste, non è drammatico, è molto di più: è l’indicibile, lo scandalo, la vergogna, come ha appena ricordato un uomo che porta degnamente il nome di Francesco: la vergogna di un altro centinaio di morti a Lampedusa, infagottati nei loro sacchi da cadaveri, affogati nel nostro mare di lacrime e di sangue. Nell’oceano, ancora, della nostra indifferenza e della loro disperazione. Preghiere mute e solitarie verso e soprattutto per un altro mondo.”

(Vincenzo Maria Oreggia)

Le Puttane cinesi

Pubblicato: 01/10/2013 in Racconti
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Quell’anno ero dimagrito dodici chili in quasi due mesi, ché a casa di Madhav l’acqua per fare la doccia puzzava di morte come ci fosse un topo marcio nella tanica e solo troppo tardi scoprimmo che c’era davvero.
Le mucose asciutte dalla dissenteria, quello che bevevo usciva diretto e incontrollato dieci minuti dopo.
Madhav era il direttore della scuola dove lavoravo e la sua casa era l’ultima di Narenthar, l’ultimo quartiere a nordest di Kathmandu.
Ci si arriva da Chabel, verso e dopo Boudhanath, con due microbus sempre più piccoli, più azzurri, più affollati.
Poi a piedi per un viottolo lungo e sterrato, costeggiando il muro del ricovero degli storpi che gira a destra al capanno dei cantanti ciechi diventando un sentiero, e poi giù attraversando due campi e due botteghe fino a un gruppo di case nuove.
Le case nuove di Kathmandu sembrano partorite da un fumettista freak in lsd. Colonne corinzie rastremate, bianche di gesso e calcina, capitelli coll’acanto giallo, le volute rosa, le mura verdi o lilla. E il marmo.

“Have you seen my pink marble?” fa tutto fiero delle sue scale rosa carne e venature varicose verdazzurro.
“Sì certo come no”.
Madhav mi decantava Narenthar come  zona residenziale di Kathmandu, dicendomi che i terreni costavano ancora poco; avrei dovuto comprare il suo pezzo di terra di due ana, ché secondo lui avrei fatto un affare.
Sì certo, come no. Gli ripetevo dondolando la testa di lato come fanno loro per dire ok, a un palmo dal suo sorriso enorme e bianco. Poi dal terrazzo della casa ho visto il Sacro Bagmati, un fiume nero di seppia, che era a non più di 50 metri e il puzzo se girava il vento ti prendeva lo stomaco.
Il mattino che me ne sono andato ho lasciato sotto al letto i cracker per Fizt, un coraggiosissimo topo, che nell’ultimo mese si era stanziato sotto il mio letto e non c’è stato verso di farlo andare via. Era talmente temerario che ogni notte tornava a rischio della vita. Alla fine ha vinto lui. Aveva come una missione da compiere così l’ho chiamato Fitzcarraldo, Fitz gli ultimi tempi. Ho ancora le foto di quel grandissimo figlio di puttana.
Dopo un mese decido di andarmene da lì, se volevo uscirne vivo e raccontarla mi serviva un posto con l’acqua decente. Così quel mattino mi alzo prestissimo e preparo la mia roba. Esco, a venti metri dal portone c’era il corpo e le viscere di un vitello sventrato, come fanno i lupi, dal culo. Così ho capito perché i cani quella notte sembravano impazziti più del solito.
Ancora non ricordo bene come ho fatto ad arrivare sulla strada, con lo zaino ed il materasso indiano sulle spalle. La vanità non ammette realtà. Ho cancellato le foto di quei giorni. Non puoi frantumare tutti gli specchi che ti capitano a tiro, puoi solo evitarli con rabbia come fai con le vetrine che ti riflettono uno spettro, ma le foto, almeno quelle le puoi strappare, cancellare, ché non sono mica io quello.
Dopo aver preso tre bus e un tuk tuk sono arrivato da Tana, a Patan, che è dall’altra parte della valle. La casa era molto bella, l’aveva presa in affitto da poco e subito ci si erano stanziate sei famiglie Newari. Una per ogni stanza dei primi due piani. Duemila rupie a stanza per mese. Una turca al piano terra.
Tana con moglie e figlie erano al terzo piano, così ho messo il materasso indiano in terra, nell’unica stanza libera al pianterreno dove c’era solo una vecchia poltrona di giunchi e Ganesh, Shiva e Parvati incollati al muro e niente topi mi assicura. Solo che la stagione è quella delle piogge, dice, e dormire per terra è umido.
Una settimana dopo, rimediata una rete da letto, finiti gli antibiotici, l’imodium, la diarrea e la febbricola, ho convinto Tana che è guida turistica a trovarmi un posto in un gruppo per il Tibet. Scuoteva la testa il newari piccolo e tosto, come a dire tu non stai ancora bene e mi guardava perplesso, ma in modo sereno e rispettoso che poi ho imparato a capire.
Volevo a tutti i costi andare al di là di quelle enormi montagne che ogni tanto si concedono alla vista, tanto che i nepalesi si segnano in fronte e in petto quando le vedono. Andare oltre quel limite, quello chiedevo.  Solo di andare oltre e avanti, non guardare indietro.
Passati quattro giorni e qualche chilo in più, Tana bussa alla porta alle cinque del mattino, mi dice che un tedesco dopo una sbronza era stato pestato dai russi a Thamel e così si liberava un posto per me.
Però ci dobbiamo sbrigare e fare i permessi, firmare le carte per i cinesi e l’ambasciata, che c’è da partire in tre giorni. Si deve andare in centro a Thamel da Gajendra il capufficio. Gajendra è un ciccione con un bel sorriso; appena mi vede mi fa “italiano sempre scopare eh” – tua moglie – gli dico io. Senza sorridere. Questo è stato il nostro biglietto da visita. Adesso siamo quasi parenti, sono uno dei tanti padrini del figlio.
Mi dicevano che quel fine di Luglio era il più caldo degli ultimi trent’anni, a me non sembrava più fastidioso della nostra afa estiva. I regolari monsoni alla sera, a volte li aspettavo in mutande, sulla terrazza. L’avevo visto fare con tanto di saponetta in mano e ci si salutava dai tetti vicini, anzi si rideva proprio, sempre dondolando la testa di lato, come a dire bello eh, che figata, doccia gratis del signore dal cielo. E ridevamo insaponati.
Arrivò il terzo giorno, e già dal mattino alle sei ero in un vecchio minivan con due giovanottoni milanesi e una coppia americana: Maria era cubana e si capiva sopratutto dal culo, perché sennò sembrava irlandese rossa e lentigginosa com’era, ma poi se ci parlavi, si capiva da come si eccitava nei toni e gesti che era di cuba profuga a Miami, come il suo compagno, gli occhi azzurri e i capelli bianchi, che per tutto il viaggio si è spacciato professore di non so bene cosa. Storia, arte, antropologia, con voce da baritono, stracotta dalle sigarette e sempre la stessa lurida giacca.
Mentre si sale sulla strada Araniko verso Kodari la frontiera, il Nepal diventa verde cupo. Altissimi ciuffi di bambù, gli enormi ficus e le risaie a terrazza lasciano il posto a foreste di agrumi, di alberi Sal e giganteschi rododendri. Più in alto le conifere di montagna, i cedri azzurri che sanno di mentolo, mentre la pioggia era come un suono assordante noi muti nella jeep su curve a strapiombo nel vuoto dei fiumi di fondovalle.
Per un paio di volte siamo passati sotto una cascata tanta era l’acqua che veniva dalle rocce, e il fragore sembrava dovesse far esplodere ogni volta l’abitacolo. Acqua. Un muro solido d’acqua dal cielo di tutte le nuvole dei monsoni estivi dal golfo del Bengala spinti contro l’Himalaya dove a 4000 mt si fermano, si tamponano, si gonfiano vomitando letteralmente il diluvio. In 5 eravamo lì in mezzo.
Si continua a salire. Dopo aver passato mezza giornata per le preatiche alla frontiera di Zanghmu, in Cina, si cambia mezzo, affidati alle guide statali di Lhasa che da allora ci avrebbero sempre seguito.
il Nyalam sale sempre più in alto, verso i 4000 mt, con le orecchie a pezzi dalla pressione, dal rumore della pioggia sul telone, gli sbalzi della jeep nei tornanti tra i banchi di nebbia.
E’ così facile morire qui, credo stessimo pensando all’unisono, che avevamo facce di terra e muti senza guardare gli strapiombi, tra un banco di nebbia e l’altro. Maria aveva perso il sorriso e la parlantina, strizzando la mano al suo professore. Io avevo una buona scusa per continuare a stare zitto.
Dopo una curva, la pioggia e la nebbia finiscono quasi di colpo e ci rendiamo conto, anche dalle birre che il driver stappa e passa dietro, che abbiamo oltrepassato il limite delle nuvole. Sono dietro e sotto di noi.
Continuiamo a salire nei tornanti e loro cariche e pesanti di pioggia adesso non ce la fanno a seguirci.
Ci fermiamo per pisciare, noi uomini in fila sul ciglio della strada e l’altimetro al polso di uno dei milanesi segna oltre 3.800 mt. Il paesaggio è ancora umido e bagnato, nell’aria si sente l’acqua dei cumuli grigi che sono proprio lì sotto il tornante e pare vogliano salire. C’è solo nebbia elettrica e fredda e gli alberi non ci sono più. Adesso sono cespugli e le rocce affiorano. E’ il Nyalam ancora verde ed umido.
Piscio già con difficoltà che l’altitudine raccomanda diuretici per tenere sotto controllo la pressione e si riparte. Si sale ancora. Sette, otto tornanti, stordito dai sobbalzi, stremato dalla condizione e dall’altitudine credo di essermi addormentato per un po’ e perciò non credo a quello che vedo riaprendo gli occhi.
Adesso il sole brucia enorme, violento, sull’ altopiano improvviso e d’immenso rosso di polvere di ruderi di mura di città carovaniere perdute nello stesso colore di ruggine sotto un cielo biancoazzurro accecante.
La strada dritta, persa e nera d’asfalto perfetto all’infinito, sono nastri divisi dalla mezzeria che si incontrano paralleli nel punto di fuga all’orizzonte. Ci fermiamo ancora. E’ l’altopiano del Tingri.
Ora le parole non ci sono fra noi perché non basterebbero. Non servirebbero. Solo sguardi allucinati, dilatati dallo stupore e dalla difficoltà di inghiottire l’aria.
Ai lati del levigato altopiano rosso le vette dei settemila abbagliano di ghiaccio.
Mi giro, dietro e sotto di me ci sono il Nepal e l’India invisibili sotto il mare ribollente e grigio di nubi monsoniche.
Un attimo e tutto è così cambiato. Tutto così opposto. I mondi si sono finalmente capovolti e sovrapposti. Dalla giungla d’inferno verde e rumore e vapore d’acqua al paradiso senza vita del deserto di polvere ocra e ghiaccio e vento.
E’ questo tutto quello che so e che voglio ricordare del Tibet. Quei primi momenti di smarrimento, di ipossia, sbandamento. Incredulità. Falsi ricordi di sogno, come quel fungo che trasmigra l’anima, ancora non acclimatato, non guarito, il vento mi rese sordo e la polvere rossa quasi cieco.
Poi è tutta storia di acclimamento del corpo, del sangue. Novalgina per la notte e l’ insonnia; tra monasteri ricostruiti in fretta, paesaggi addrizzati, addomesticati alla coltura intensiva, storia di sinizzazioni e deportazioni dei cinesi attirati qui nel nuovo mondo cinese, in queste città e villaggi stravolti da ferrovie e linee telefoniche cellulari e trattorie cinesi come teatri delle ombre, di frotte di turisti accaldati alla salita del Potala e poveracci prostrati allo Jokang.
Dopo qualche giorno e qualche raro monastero dove in cui il vero Tibet avrebbe resistito ancora qualche anno, ormai avevo capito che quello a cui stavo assistendo era un radicale e velocissimo cambiamento di un mondo che era stato immobile per secoli. Quella era la nuova ineffabile guerra dopo le armi intelligenti, dopo il terrorismo militarizzato, dopo i convincimenti mediatici. I cinesi fanno la meglio guerra col miraggio dei nuovi soldi, le moto, l’asfalto, i cellulari e i quartieri dei palazzi tutti uguali alla periferia di Lhasa, dati via a pochissimo e proposti ai cinesi di Pechino e Shangai, portati quassù, i nuovi coloni, coi viaggi organizzati e dalla ferrovia più alta del mondo.
Di ritorno da Lhasa ci fermammo due giorni nello Shigatse, ormai il mio passatempo, dopo i monasteri di rito e le visite ai commoventi villaggi tipici, era quello di andare dai cinesi. Dai vincitori della guerra. A guardare i conquistatori nel loro quartier generale, nei mercati brulicanti di fritto, le serrande rumorose e gli altoparlanti che gracchiano vocine altissime e flauti, ristoranti e fast food. Negozi di elettronica.
Mi piaceva camminare la sera quando le città si trasformano, l’accendersi indeciso ma unisono di tanti enormi ideogrammi al neon di tutti i colori, e le ragazzine lì sotto l’insegna vestite alla giapponese che urlano nei cellulari rosa. Motociclette due tempi ferme all’incrocio e la gente in preda all’evidente fretta di fare qualcosa. Il far west. Camminavo come tra i saloon e gli stores di una polverosa cittadina del west americano di fine ‘800 con le ambizioni di una Los Angeles d’Asia, ma dove ancora tutto è in embrione. Tutto da fare in questa terra di conquista.
Come in tutte le chinatown i lampioni erano scarsi, indecisi e gialli ma i neon enormi e rossi come dragoni fulminavano minigonne e le cosce sui tacchi di spericolate scooteriste e i ciuffi punk dei loro coetanei.
Quella sera camminavo a Shigatse nelle vie enormi e squadrate della città nuova, girando a vuoto ma ricordo esattamente il momento.
“Saturday come slow”, era sabato e forse per questo mi girava in testa questa cantilena dei Massive Attack. Rallentai un poco, riflettendo sui jeans ormai luridi, quando una serranda si sollevò al mio passaggio. Un forte rumore di ferro alle 10 di sera. Mi fermo avvertendo un bagliore bianchissimo che saliva col rumore, prima illuminandomi le scarpe, poi i jeans, approfittai per realizzare quanto sporchi fossero davvero ma l’attimo dopo ero accecato nel cono di luce di quel locale piccolo e bianco dai neon.

Dentro la vetrina, a un paio di metri, solo una parete di cartongesso con una porta che faceva immaginare un locale lì dietro, due poltroncine verdi e un tavolo dal piano di vetro con riviste femminili. Come in un quadro di Hopper, lei coloratissima, stava seduta in quell’acquario bianco a gambe accavallate e mani sui braccioli.
Il corpetto in broccato di seta coi dragoni rossi e viola, che dopo tanti fitti bottoni bombati dello stesso tessuto, strizzava in alto la curva dei seni bianchi di polvere di riso come la faccia. Gli occhi nero pece come i capelli lunghi e stretti per la coda in cima alla testa le tiravano la pelle del viso rendendola ancora più orientale e ricadevano fino ai pantaloni nero lucidi, di foggia cantonese. Le mani di cera e le unghia lunghe di smalto rosso come la piccola bocca e le scarpe, molto belle pensai, tacco a rocchetto, punta arrotondata e piccola fibbia, fina, col bottone sulla tomaia.
Devo essere rimasto qualche attimo, abbagliato dalla luce, illuminato dal bianco e da quella che sembrava una bambola o una statua di cera, mentre l’ombra della mia testa arrivava esattamente al bordo del marciapiede dall’altra parte della strada.

Ravviava sul davanti la lunga coda nera dei capelli, con un gesto lento e lungo. Una mano dopo l’altra, la testa appena reclinata di lato. Le spalle dritte sul busto. Gesti imparati da bambina pensai e la immaginai.
Mi tolgo dalla luce facendo due passi di lato verso il buio e realizzo in un lampo quello che ho visto:
E’ una puttana. Una bellissima puttana ferocemente cinese, sotto quella biacca e il rossetto una faccia vale l’altra. Il Tibet e le puttane cinesi. Che controsenso. O che imperdibile occasione. La meglio conoscenza di un posto te la fai andando per chiese e puttane, avevo sentito, fatto mai.
Ci sarei andato. Avevo deciso. Fantasticavo di essere il loro primo cliente occidentale. O uno dei primi.
L’ho immaginata venire dalla periferia di Canton o di Shangai, dove batteva. Era il tipo di mignotta senza concessioni all’occidentalità, mi dicevo, quella che sarebbe piaciuta a un impiegato ultracinquantenne cantonese. La vidi coi soldi risparmiati venirsene fin quassù a Xigatze dove aveva saputo che da un po’ giravano tanti Yuan e dollaroni di turisti americani. Poi la vidi trattare, comprare il negozio con la serranda, qui costano poco adesso. Sarà aperto da un mese pensai, tutto troppo nuovo, anche la vetrina. Era sabato e apriva alle dieci di sera, a quell’ora non c’era mai un turista che io sapessi, perché tutti ci si doveva alzare alle cinque per la prossima tappa e di norma nessuno ne voleva sapere delle Chinatown. L’ho detto, mi piaceva il pensiero di essere il primo occidentale.

E chissà se sarei piaciuto come a Irina, quella enorme russa capitata nel gruppo e con cui ho dovuto dividere le stanze d’albergo per 3 giorni. Quella stessa sera, due ore prima, dopo averla aiutata a lavarsi i capelli con una brocca di acqua riscaldata e averle sciolto un paio di aspirine in un bicchiere ché aveva la febbre, mi disse che se volevo potevamo sposarci. Tu italiano bello simpatico buono, perché non sposare? Io mi vedevo in condizioni disastrose ma lei Irina, la gigantesca russa credeva ancora nell’amore e nel matrimonio. I soldi li aveva, divorziata a Mosca con un bel lavoro, la figlia ormai grande che fa documentari in Siberia. Noi sposare e fare tanti viaggi, diceva tetragona e febbricitante Irina, mentre mangiava barrette di Mars comperate a Lhasa.

Chissà invece come sarebbe andata con la cinese. Chissà in dollari quanto faceva.
Queste considerazioni esplose veloci e sovrapposte in frammenti, erano sorrette da qualcosa che era come un rumore di fondo: volevo risultare molto più bello e alto di ogni loro cliente cinese, comunque diverso, sarei apparso anche addirittura più ricco essendo occidentale, forse avrei avuto il cazzo più grosso. Tutte le considerazioni precedenti si ridussero a questo bisogno di essere rassicurato. Una sorta certificazione che potesse esistere un immagine fisica di me da non evitare, da non strappare.
Allora torno nel cono di luce nello stesso punto di qualche secondo prima. Guardai dentro, ripensando a dove arrivasse la mia ombra. Lei mi guarda e con un cenno della testa mi indica la porta nella vetrina. Non perdo tempo. Entro.
La bambola mi dice di sedere, a gesti mima un tè da bere lì in vetrina, nel quadro di Hopper di cui adesso ero in piedi, un nuovo simbolo metafisico. Come attori sul palcoscenico, il buio fuori era pesto,  immaginavo invisibili platee assistere. Niente tè dico e mi dirigo subito verso la porta interna. La apro rimanendo sull’uscio. Un letto, piuttosto grande, forse matrimoniale per lo standard cinese, due pentole sui fornelli di una cucina a gas, un tavolino di fòrmica come le due sedie. Sulle assi che correvano in doppia fila su due muri c’era tutto quello che sembrava potesse servire a un’estetista: oli, creme e trucchi. Seduta davanti al lavandino a muro con lo specchio si voltò quella che sembrava essere la collega che stava finendo di truccarsi. Mi sento spingere leggero alle spalle ed entro.
Seguì una breve discussione sui soldi in Yuan, che tagliai corto tirando fuori dal portafogli l’unico biglietto da 50 euro. Se lo guardarono bene, rigirandolo tra le mani bianche e smalto, parlando tra loro ma io glielo sfilai e poggiandolo sul comodino, sorridendo e aprendo i lembi del portafogli vuoto ad indicare che o quello o niente. Cominciai lento a spogliarmi. A torso nudo seduto sul letto dando loro le spalle. Le avevo sentite fino a qualche secondo prima, fino a quando una delle due ebbe un tono decisivo poi fecero silenzio. Mi girai e anche loro si stavano spogliando. A quel punto non le distinguevo più. Capelli fino alle gambe, adesso sciolti in un’autostrada sulla pelle troppo bianca. I corpi magri e i fianchi ossuti, i seni non più sorretti dal busto ora cadevano sul costato, i capezzoli scuri e piccoli. Nessun pelo sul corpo e sul sesso. Non erano giovani e neanche belle.
Adesso ero in piedi a toccare il bordo del materasso con gli stinchi e loro in ginocchio sul letto ai miei lati. Una si accaniva sulle spalle, l’altra slacciava la cinta. In due, a quattro mani spinsero giù i jeans sotto il bacino. Sapevano di crema acidula, di saponetta alla glicerina e i capelli di olio di senape. E profumo come di essenza d’erbe e fiori saliva dalle mani che ungevano di continuo da un flacone verde acido.
Ad occhi chiusi vedevo il quadro per cui stavamo posando e l’ho visto bellissimo e penoso.
Ad occhi chiusi guardavo dritto e con le braccia toccavo le spalle mentre lentissime mi carezzavano con la pelle bianca e molliccia e le mani di cera. Sentivo le unghia rosse che grattavano piano lungo la schiena. Una indugiava sulle cosce e sul culo con la testa piegata di lato vicina al mio sesso, saggiò i glutei con una mano e con l’altra soppesò il cazzo sollevandolo da sotto i testicoli con la mano a coppa, l’altra più dritta spiava con le mani le spalle e il busto.
Poi una decise di prendere un preservativo così svanì in un attimo il gruppo laocoontico che avevo nella testa. Il preservativo non servì a molto, dato che non ebbi alcun tipo di erezione ma a loro non sembrò dare nessun fastidio. Mentre parlottavano piano e sorridevano dolci tra loro, una arrivò a sfiorarmi con la bocca il viso, poi sul collo, persino vicino all’angolo della bocca ma niente di più perché era chiaro, niente baci e tanto meno altro con la bocca. Assolutamente.
Mi spinsero a faccia in giù nel letto. Una fece in modo di trovarsi sotto di me, mi fece capire di appoggiarmi completamente al suo corpo, di peso, mentre l’altra mi si stese sopra strisciando. Sulla schiena sentivo quel corpo leggero. Quella sotto aprì le gambe e mi trovai incastrato tra le sue cosce, sesso contro sesso, senza alcuna eccitazione. Ruotava il bacino facendo muovere passivamente pure il mio. La gemella da sopra massaggiava dolcemente dalle gambe alla colonna vertebrale, ogni tanto scivolava di nuovo col corpo sopra al mio.
Mi tenevano le braccia aperte come un Cristo bocconi sul letto, tenendo rovesciate in alto le palme delle mani e premendole coi pollici. Poi sentii i gomiti sulle scapole, le mani sul collo, i corpi ormai scivolosi dalle creme. Tornai a chiudere gli occhi, senza dover fare e dire niente altro che subire l’ipnosi di un serpente.
La fine di quel gioco venne spontaneo, come all’avviso di un invisibile timer. Ci slacciammo lentamente, all’unisono, cominciando a vestirci. Mi ricomposi in quello che mi sembrò l’istante di un lampo anche se avvertivo il ritardo, l’eco lungo dei gesti. Loro erano già alle prese coi corpetti, le spazzole, la biacca e i rossetti. Si contendevano ridendo l’unico specchio sul lavandino.
Rimasi lì a guardarle un po’ sulla porta. Una mi fece segno di andarmene, ridendo e minacciando con la spazzola, recitando lo scherno di farsi vedere sciatta e tutta da preparare.
Le puttane cinesi adesso mi sorridono. Feci per andarmene, mi voltai e lei mi corse dietro scalza e sulle punte, aggrappandosi alle spalle, mi disse qualcosa in cinese sotto la faccia. Sarà stato sicuramente “torna dai che ci divertiamo e ci dai altre 50 euro”. Poi ficcandomi una mano nella camicia mi carezzò ancora il torace. Mise le mani dentro ancora una volta, adesso con forza per far sentire le unghia, tirando e ravviando i peli del petto al contrario. Mi sorrise e baciò una spalla. Poi staccandosi disse veloce una cosa all’amica continuando a pettinarsi i capelli.
A quel punto esco, guardo l’ora, erano le 23 e un quarto.
La serranda aveva aperto alle 22 esatte.
Per quella notte non sentii il bisogno di scappare ancora.

Amilcare Caselli

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Oltre 100.000 i morti in Messico dal 2006. Le cifre sono paragonabili alla situazione odierna siriana,  ma è una stima approssimata per difetto dagli organismi internazionali come Médicins Sans Frontières, Amnesty International, Croce Rossa o l’International Crisis Group. L’appello di molti intellettuali, giornalisti ed attivisti, ed anche di Lucia Capuzzi in questo libro, richiama l’articolo 3 della Convenzione di Ginevra per proteggere i messicani e centroamericani civili dagli esiti di quella che a tutti gli effetti è una guerra in corso. La guerra al narcotraffico.

La guerra al narcotraffico  è scattata quando Felipe Calderon, del Partito Azione Nazionale (PAN) della destra messicana , ha vinto, con non poche accuse di brogli, le elezioni del 2006. Da allora è iniziata una delle più grandi azioni militari, con oltre 25.000 soldati e tutte le polizie e servizi segreti,  contro i narcotrafficanti messicani, militarizzando di fatto il paese. Il risultato, dopo sei anni di guerra vera e propria, vede il Messico in ginocchio e le narcomafie tremendamente rafforzate.

Lucia Capuzzi ci trasporta in giro per il paese, prevalentemente per le disperate città del nord, quelle dei 3200 km di frontiera con gli Stati Uniti, dove c’è più disperazione dove il tasso di criminalità e di omicidi procapite è la più alta del mondo, e dove passa “La Bestia” che va in America.

La Bestia è il nome che i centroamericani, anche onduregni, di San Salvador e degli altri paesi vicini, danno al treno che passa in messico ed oltrepassa la frontiera del “eldorado americano”.  E’ il classico treno della speranza, a cui si aggrappano (letteralmente perché viaggiano clandestini sui tetti dei vagoni) migliaia di uomini e donne e bambini in fuga dalla guerra e dalla povertà. Durante il tragitto vengono rapiti gli uomini, poi ricattate le famiglie oltre frontiera, violentate le donne, “desaparecidos” i giovani in forze ed in buone condizioni, costretti ad arruolarsi nelle file dei cartelli o morire nelle fosse comuni. I cartelli della droga traggono ed hanno tratto vantaggio e soldi e potere da questa guerra. Mentre il paese è in mano all’esercito, polizia ed istituzioni, corrotte e senza controllo, i narcotrafficanti rimpinguano le loro casse, anche col commercio degli schiavi, la prostituzione, traffico di organi, ma sopratutto diversificando le attività illegali ed entrando e compromettendo il tessuto economico tradizionale.

Lucia Capuzzi col suo libro ci fa conoscere una realtà che tenta di reagire a tutto questo. Ci fa parlare coi preti missionari di frontiera, con giornalisti ed intellettuali, con gente che fonda ostelli nelle precarie stazioni della bestia, per dare conforto e denunciare gli abusi e gli omicidi, le fosse comuni, il terrore e le disperazione del popolo che vorrebbe emigrare clandestino negli Stati Uniti ed invece si ritrova carne da macello per la tratta degli schiavi. E’ gente che non ha identità, clandestini in un paese in guerra. “Coca rosso sangue” ci dice, dati alla mano, che i mafiosi oggi sono più forti che mai e che le loro trame vanno ben oltre il Messico, passando per gli Stati Uniti arrivano, da ormai troppo tempo, fino in Italia: a Gioia Tauro.

Perché c’è un filo rosso sangue che lega i cartelli messicani della coca con Gioia Tauro; uno degli scali container più grand di tutta Europa. Costruito in pompa magna fin dal 1974 per lo sbocco e la partenza di quello che doveva diventare uno dei grandi centri siderurgici del Sud Italia. Gioia Tauro doveva servire a rilanciare l’arretrata Calabria ma già quando le ruspe sbancavano tutta la costa il crollo del mercato siderurgico del ’74 già lo rese inservibile. Rimase un mostro inattivo per 20 anni fino a che le ndrine dei Piromalli e tutte le altre ne hanno reclamato il possesso in base ad accordi ben precisi, presi con i politici e manager statali di allora.

C’è un perché se la ‘ndrangheta fino a qualche anno fa significava piccoli sequestri di persona e pizzo locale e poi è diventata la mafia più organizzata ed infiltrata nell’economia reale di questo paese; al sud ma sopratutto nel nord, nella ricca economia padana. Perché da Gioia Tauro passa gran parte della coca destinata in Europa, ed i calabresi delle ndrine sono stati i primi a prendere accordi con i messicani del cartello “Los Zeta” residenti a New York.

Le mafie crescono, si trasformano col cibo delle guerre, delle armi. Banchettano sempre sul disagio e disperazione che ogni risoluzione violenta, che ignora le origini dei problemi, porta con sé, inevitabilmente.

Amilcare Caselli

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“Sulle mie cattive strade – storie di narcotraffico e dipendenza” diventa un seminario importante, anzi una serie di 3 incontri, previsti per Settembre, Ottobre e Novembre.

Organizzati da AmaAquilone in collaborazione con l’agenzia giornalistica Redattore Sociale, “Sulle mie cattive strade” si articola in 3 date; ognuna dedicata ad una specifica sostanza stupefacente: oppioidi (eroina e derivati), cocaina e droghe sintetiche. Come si evince dal titolo, saranno discusse le cause, le rotte, lo “stato dell’arte” attuale del narcotraffico e le loro implicazioni sociali ed economiche.

Per questo primo appuntamento il 20 Settembre al Palazzo dei Capitani di Ascoli Piceno, Antonio Ingroia, Federico Varese ed Alessandro Scotti saranno intervistati da Augello di Redattore Sociale e Narcoleaks.org per il quadro storico ed attuale del traffico mondiale di oppio ed eroina.

oppioidi

Il 25 Ottobre, all’ Auditorium di San benedetto del Tronto, seguirà il seminario sul traffico internazionale di cocaina. Interverranno Luca Rastello, Paolo Berizzi e Lucia Capuzzi.

COCAINA

A chiusura di questi appuntamenti, il 21 Novembre presso la “Sala Kursaal” di Grottammare (AP) si terrà  il seminario dedicato alle vie delle nuove droghe chimiche e sintetiche (ecstasy, metamfetamine, MDMA ecc.) . Interverranno Fabio Bernardi e Raimondo Pavarin sempre intervistati da Augello.

DROGHE-SINTETICHE

Ogni appuntamento, nei giorni precedenti e successivi all’evento, vedrà una mostra fotografica a corredo ed in tema con gli argomenti trattati.

Amilcare Caselli